
Persone sole
A guidare il taxi si finisce con il capire le persone.
A me, ad esempio, basta la porzione di loro che riesco a scorgere dallo specchietto retrovisore e so già chi sono i passeggeri. A parlarmi di loro sono uno sguardo perso, un occhio, un orecchio, il rumore che fanno le molle del sedile posteriore.
Questo qui ha fretta: si è spinto in avanti. Questa qui è una matta: si è spostata tre volte. Lei è sola: si è lasciata cadere sullo schienale, appoggia il gomito sul finestrino e preme la fronte contro il vetro.
Sono il carro funebre di anime tristi in questa periferia del mondo. Sembra quasi di sentire quelli che compongono il numero di servizio, indicano l’indirizzo e si mettono in attesa negli angoli delle strade, mentre cercano di liberarsi dal pensiero scomodo che loro, un passaggio, non ce l’hanno.
Qualcuno potrebbe obiettare alla mia visione pessimista, dicendo che di solito si prende un taxi perché non si ha la patente o perché non si ha l’auto o perché non si vuole salire sui mezzi pubblici per paura di avere la faccia premuta tra quella di mille altre facce premute, e di respirare la loro stessa aria malata. Io, però, guido questo taxi da anni, e so bene che, principalmente, sali qui dentro perché sei solo, o perché tutti si sono dimenticati di te e in questo non c’è nulla di pessimista. Solo realtà.
Devo aver parlato troppo. O troppo velocemente. Il passeggero annuisce alle mie parole, ha le orecchie riempite da quelle cuffie senza fili che vanno tanto di moda, non mi ha nemmeno ascoltato ma non vuole apparire scortese, perché questo stonerebbe con il suo abito blu e la sua valigetta di pelle nera a cui sembra restare attaccato come se da ciò dipendesse la sua intera esistenza (probabilmente è così). Sono ventitré e ottanta, lo specifico: tre è il costo dello scatto di partenza. La ringrazio, buon lavoro anche a lei.
Me ne torno vuoto al mio solito posto, nel mio solito parcheggio e aspetto un altro destino incrociarsi col mio. Sale una signora che si rintana subito nell’angolo più angusto dell’auto. Non ho sentito, signora, la via, me la ripete, sì certo, ho capito, dove c’è la rotonda, allora andiamo. Mi ricorda mia madre, la signora. Mia madre ha sofferto nella vita ma non le piace darlo a vedere, porta sul viso i segni della vergogna che lascia il dolore e guarda costantemente nel baratro malinconico di un passato che disprezza e rimpiange allo stesso tempo. Avrei potuto, avrei dovuto. Il condizionale passato pesa sempre nelle sue parole, che sono cadute dentro di me e mi hanno sfaldato il petto, insegnandomi a diventare come lei. Mia madre non lo ha spezzato, il ciclo delle maledizioni traumatiche dell’esistenza e le sue crepe si sono estese anche su di me. Io però fingo di essere intero e provo a spezzare la catena dei traumi. Sono sette e cinquanta. Lo specifico: tre è il costo dello scatto di partenza. Va bene, sette, non si preoccupi. Sì, ha ragione, le monete non le usa più nessuno. Ecco la valigia. A lei.
Mentre guido mi appendo al volante, quasi senza rendermene conto. Ognuno si appende a ciò che potrebbe al contempo salvarlo e ucciderlo, come avviene con gli amori grandi. È una vecchia storia, sono secoli che la narrano schiere di poeti tristi, ma lei che ne sa, avrà neppure vent’anni. La ragazza sul sedile posteriore annuisce, si è seduta nel mezzo e allarga le braccia facendo aderire i palmi sulla superficie di pelle, come se avesse bisogno, anche lei, di tenersi ancorata a qualcosa. La osservo per un secondo dallo specchietto retrovisore e la rivedo. Lei. Riemerge per qualche spicchio di attimo, poi torna l’oblio della memoria. Dopo di lei non ho amato nessuna e non ho sofferto più. Succede che gli amori siano come quei grandi terremoti che, con una sola scossa, fanno cadere tutto. E basta. Non c’è più niente. In me, infatti, è caduto tutto da allora, e sì che ne è passato di tempo. Mi dicevano tutti, allora, che ero giovane e che un giorno, per forza di cose, avrei amato di nuovo perché è nell’ordine del mondo che sbiadiscano, prima o poi, le cicatrici, ma nessuno di loro ha avuto ragione, e probabilmente il mio destino era questo qui. Non che io creda al destino, è tutta una roba che ha inventato qualcuno per giustificarsi di qualche suo fallimento. In realtà credo più a quel tizio che diceva che la nostra vita è il risultato delle nostre scelte. Non fa niente se le mie sono state scelte sbagliate, preferisco prendermi le mie responsabilità e rassegnarmi senza perdermi nello strazio dei rimpianti. Mi ricordo i suoi occhi, mentre imprimevamo i nostri piedi infantili nella sabbia millenaria. Sei tu che non mi vedi, mi disse, io sono qui. Mi ricordo che era vero, che non riuscivo a vederla, che mi ero scordato di lei, che mi stringeva la mano e mi ricordo che nonostante tutto, la lasciai andare via. Scelsi di lasciarla andare via. Lei smise di soffrire dopo un po’; questo lo so perché qualcuno mi ha detto che si è sposata e ha avuto anche due figli e io, invece, guido un taxi scassato. Sono tredici, tre è il costo dello scatto di partenza, signorina, la ringrazio. Una buona serata a lei.
Quelli che devono prendere un aereo li riconosci subito, con quelle valigie piccole e compatte e quei giubbotti che se li ripieghi sono abbastanza morbidi da essere usati come cuscini. L’uomo non chiede aiuto per la valigia, la poggia con noncuranza sul sedile e mi chiede di portarlo all’aeroporto senza entusiasmo e senza impazienza. Non vedo il suo volto oscurato da grossi occhiali neri, ma so immaginare tutte le sue espressioni, perché vedo il riflesso dello schermo del suo cellulare nelle lenti, e riconosco dal respiro l’incredulità per il video di quel tizio che minaccia di buttarsi giù da un palazzo che circola da stamattina. Sì, ho sentito anche io, una brutta storia. Io penso che se un uomo ha voglia di buttarsi giù da un palazzo lo fa e basta, senza lasciare il tempo agli altri di chiamare qualcuno che lo possa fermare. Per questo odio la folla di curiosi che si assiepa puntualmente intorno al grande materasso gonfiabile dei pompieri e che, a bocca aperta, si chiede se l’uomo si butterà. L’uomo non si butterà, se avesse voluto diventare un ammasso di organi e ossa disorganizzato sul marciapiede sporco lo avrebbe già fatto da un paio di ore, un piede nel vuoto e la gravità lo avrebbe tirato giù con un’accelerazione di nove virgola otto metri al secondo circa e il suo strazio sarebbe finito e a quest’ora sarebbe già chiuso in una qualche bara a imputridire; se ha aspettato che casualmente qualcuno gli dicesse non buttarti, vuol dire che non vuole morire, ma solo essere salvato, e non dal pericolo che si uccida, ma dalla sua stessa vita. Che poi, quei curiosi sono gli stessi che rimarrebbero indifferenti, se quel tizio che ora sta lì, coi piedi penzoloni, chiedesse aiuto a gran voce in mezzo a una piazza. Dall’alto del palazzo, invece, la sua figura assume una diversa tragicità, chissà perché le persone in bilico fanno sempre tanta impressione. Il confine tra curiosità e indifferenza è così sottile, in fondo sono solo due diverse forme di disinteresse. Però li capisco anche, i curiosi: so bene che a tutti piacciono le storie scontate e che vanno a finire bene, a pensarci è su questo che si basa la coesione di una società, sul sacrosanto diritto collettivo di gioire superficialmente per un uomo che non voleva buttarsi e che alla fine, chi se lo aspettava, non si è buttato. L’unico problema è il traffico, sa, è tremendo bloccare così una via principale, per noi taxisti è un gran disagio. Sono quarantatre e ottanta, tre è il costo dello scatto di partenza. Mi dispiace, abbiamo dovuto allungare il percorso. Buon viaggio a lei.
Resto un po’ al cospetto della grande vetrata dell’aeroporto, mi chiedo perché l’abbiano costruita così: inclinata verso il basso e non verso l’alto. Così riflette la terra, sarebbe stato meglio se avesse riflesso il cielo. Aspetto di vedere gli aerei passare. Da piccolo mi piacevano così tanto, avevo imparato a memoria gli orari in cui volavano sopra la mia casa o la mia scuola, o forse il mio orecchio aveva solo creato una temporalità basata su quel rumore così che sapevo, quando passava il terzo aereo della giornata, erano le dodici e diciassette e che, quando passava il sesto, erano le diciassette e cinquantanove. Mio padre mi portava qui la domenica mattina, mi comprava una di quelle sciocchezze delle edicole, che, chissà perché, fanno felici i bambini, e restavamo seduti a stupirci del fatto che una cosa così pesante riuscisse a staccarsi da terra. A volte, come in questo momento, mi chiedo come sia possibile che sia già arrivato il giorno in cui io sono diventato adulto e cinico e mio padre piccolo e ingenuo, o, in una parola, vecchio.
Mi piace quando il cielo si incendia e io ho il privilegio di vedere l’ultimo spicchio di Sole che viene coperto dal promontorio. Da questa strada, appena dopo questa curva, riesco a scorgere la casa di quando ero bambino. Cerco sempre la finestra della mia stanza, provo a farla coincidere con la punta del mio indice sinistro, anche se da qui si possono vedere solo le persiane chiuse, anche se dentro non c’è più nessuno, da un bel po’. La vede? È proprio quella lì. Sì signore, quella con il tetto rosso. L’uomo strizza bene gli occhi e poi, probabilmente per sembrare accondiscendente, annuisce e dice, sì, la vedo. Guardo la sua fronte aggrottarsi al di sotto del cappello con la visiera, e mi pento di aver tentato ancora una volta di ricondurre la mia vita a quella carcassa piena di fantasmi in cui riecheggiano anni di mancata felicità e lacrime di mille notti.
Signore, questa corsa gliela offro io, sì certo. Offro sempre una corsa a chi riesce a vedere la finestra della mia stanza.
Erica Cassano
In copertina Marialinda Toriello

