
Waddan
Aveva deciso per tutti, mio padre. Saremmo andati in Libia. Avremmo caricato le nostre cose sulla macchina e la macchina sulla nave. Cosa rimanevamo a fare, diceva, nella provincia di Ravenna lungo il Po maleodorante, quando al di là del mare ci aspettavano le messi rigogliose e la ricchezza? Cos’erano le saline di Cervia in confronto alle lodi cantate dal Vate su quella terra nostra, conquistata con i petti prestati ai proiettili e alle sciabole?
A me, però, sarebbe mancata la nostra piazza con la chiesa e le casine basse dei pescatori dove abitava l’Ileana. E così le scorribande nella pineta con gli amici, il nascondino dietro i tronchi ritorti e noi seduti in circolo a sbocconcellare i pinoli guardando in bianco e nero le foto delle sorelle e delle zie.
A tutte queste parole erano poi seguiti giorni di preparativi. Le donne sbattevano e arrotolavano materassi che disperdevano nell’aria ciuffi di lana volteggianti, preda delle correnti d’aria. I cibi venivano stipati nei contenitori, l’orto spogliato di cipolle, cavoli e lattughe. Lenzuola venivano adagiate sui mobili di foggia spessa, sui comodini che contenevano vasi da notte, sui divani buoni e quelli dove la Lisella, la gatta, si faceva le unghie stiracchiandosi ogni sera per poi andare a dormire sulla stufa di ceramica.
Le mogli dei miei fratelli correvano per la casa e si mandavano echi l’un l’altra emozionate e stanche. Addio risaie, saline, addio ai padri pescatori dell’Adriatico, addio al ristorante Romagna e al caffè Roma nella piazza centrale dove per anni si erano consumate le mani a far gelati, a far piadine. Ora avrebbero fatto le signore, di quelle con la servitù. La famiglia avrebbe gestito un albergo elegante dall’altisonante nome, Waddan, con cuochi e chef e camerieri in livrea per i gentiluomini e le gentildonne coloniali. Così diceva mio padre la sera, al tavolo, mangiando la ciambella e bevendo visciolino: questa sarebbe stata la vita che la famiglia avrebbe condotto là. Io guardavo le luci della sera fuori della finestra e i pini alti ingoiati dall’oblio notturno, la pineta che chissà per quanto non avrei più attraversato e il mare nostro, al di là di essa, e gli scogli dei tuffi e quelli da cui pescavamo i baganelli. Chissà com’era l’altro mare, se aveva gli stessi colori e bambini come me che si lanciavano dai pontili. In quei giorni di trambusto, mentre tutti guardavano al futuro, io pensavo con nostalgia alla casa e al giardino, alla gatta, all’Ileana, un passato ancora presente e non potevo non sentirmi già staccato, lontano, dimenticato dalle cose e dal tempo che si sarebbe srotolato indifferente nel mio paese e che avrebbe fatto il suo corso senza contenermi.
Poi il giorno era arrivato. Il viaggio era stato lungo e per lo più lo avevamo passato a vomitare, insieme o a turno, dal pontile o nei secchi. C’erano stati pioggia, vento, onde alte e cose che rotolavano sulle travi di legno delle cuccette. Le donne sgranavano rosari. Quando poi la nave aveva attraccato, il bagliore abbacinante della luce del mezzodì ci aveva ferito gli occhi e così i grandi spazi aperti, desertici, ocra, su cui si posavano, lanciate a mazzi irregolari, capanne dalla punta a cono. Il caldo torrido si sostituiva all’umidità, al freddo inverno degli argini del Po e dei suoi canali colmi di anguille. Il vate aveva certo esagerato e le messi decantate si seccavano sotto lo scotto del cielo.
L’aria rovente rendeva il corpo molle e debole e mia madre, i miei fratelli e le loro mogli si sventolavano i visi sudati e accasciavano i loro sederi su sedie di ottima fattura. Solo mio padre, Italo, instancabile, correva e comprava, sistemava, comandava, organizzava, catalogava, vittima ed eroe di grandezze cui aspirava. Ordinava cioccolata dalla Francia e salmone dalla Norvegia per l’ambizioso chef. Invitava le orchestre migliori dell’Europa e si accompagnava alle cene con americani grassi al cospetto di mogli sguaiate.
Io guardavo da sotto le tovaglie bianche le feste e gli scintillii delle posate argentee e gli ottoni e le coppe con su inciso il nome dell’albergo del regno italico di Libia. Mi facevo rapire dai balli, dai volteggi, dagli orli dei vestiti bianchi delle dame che si alzavano al tempo che davano le note. I negretti correvano veloci, sgridati, redarguiti, inamidati dentro divise rosso e oro.
Un giorno mio fratello Iuarez mi portò a cacciare. Era ora mi facessi uomo, aveva detto. La distesa piana della sabbia fondeva, nella linea tremula dell’orizzonte, il beige desertico col ceruleo del cielo, mentre il sole, un inferno di caldo liquido che bruciava la pelle sotto i caschetti coloniali e le mani a contatto con le maniglie, il cruscotto, la carrozzeria della jeep, sublimava le cose in uno stato fluido: perenne condanna e punizione dell’Africa. A ridosso di un branco di gazzelle eravamo scesi mettendo uno dietro l’altro passi silenziosi, furtivi. “Spara!” aveva detto indicando una gazzella che brucava. “Spara!” e io, mirando in alto, lontano lontano avevo premuto il grilletto, strizzando gli occhi e rinculando a terra nell’orda di sabbia lasciata dagli zoccoli. “Bravo”, mi ero sentito dire.
Quando rivolsi lo sguardo, l’animale si divincolava a terra strapazzando in aria le gambette esili, impotenti, e fletteva il collo lungo, sinuoso. Raggiunsi mio fratello e guardai lui che la guardava indifesa, alla nostra mercé, gli occhi supplicanti di perché. Dal buco sul collo, a tratti, flotti di sangue uscivano saltando, poi niente, poi di nuovo. Piansi. Mio fratello rideva consolandomi che l’avremmo mangiata. A me sembrava ancora più orribile l’omicidio, la colpa. Così caricammo la gazzella sulla macchina. Mentre la jeep volava alzando tempeste sabbiose, come un film, scorreva l’ondularità delle dune sugli occhi. Noi fuggivamo la sabbia e il tempo che portava via la vita, l’innocenza. Quando mio fratello si fermò al villaggio, la sua donna ricucì il collo alla gazzella. Sopravvisse e si chiamò Aria come l’aria che aveva riconquistato.
La portammo con noi e senza saperlo portammo anche altro. Di nascosto, nella calca generale che aveva attorniato noi e l’animale ferito, Lui, un bambino, si era infilato in macchina. Se ne era stato nascosto tutto il tempo, fermo, all’ombra del sedile, zitto, come giocasse a non esistere, a non pesare nell’orbita del mondo. Tenemmo anche lui. Mio fratello poi, per anni, aveva raccontato agli amici quella giornata strana, in cui mi aveva portato a caccia e ci aveva guadagnato non pelli, né cibo, né divertimento, ma lacrime, sconquasso, un villaggio indigeno stupito, una gazzella e un negretto che io mi ero tenuto. Perché noi, in effetti, da lì in poi si era stati inseparabili: io, Aria e Lui.
Inventavamo giochi rocamboleschi e spericolati di pirati e tesori e oasi. Rubavamo leccornie all’ambizioso cuoco geloso, infilando le nostre piccole mani nelle dispense, e le nostre piccole dita affioravano scaltre da sotto i tavoli della cucina. Bevevamo rimasugli di lattine di birra lasciate incustodite dai camerieri negli angoli dove erano soliti riposare tra una portata e l’altra. Fumavamo tabacco rubato dalle tasche altrui, che Aria golosa fiutava a distanza, correndo dinoccolata e felice a ruminare dentro le giacche ecrù. Rotolavamo dalle dune, legavamo granturco a uno spago per innervosire le galline, bevevamo le uova rompendo il guscio di lamina sottile, ci rincorrevamo nelle stanze della casa e irrompevamo nelle camere dell’albergo mentre le donne strillavano spaventate da Aria, che scivolava con le gambe fini sui tappeti intarsiati dai berberi. Stanchi e contenti la sera dormivamo insieme, Aria fuori dalla finestra col muso appoggiato alla zanzariera, io sul letto, Lui accanto a me, sul pavimento. Gli piaceva così. Non aveva detto perché era salito sulla macchina nascondendosi. Perché ci aveva scelto. Lui non diceva niente, forse era muto, asserivano i grandi. Stare con me sembrava bastargli, seguirmi in avventure misteriose sembrava piacergli. Senza parlare, capendo tutto. Gli occhi intelligenti, enormi, d’un bianco che circondava il nero intenso delle pupille tristi. Quando rideva il viso si trasformava in gioia pura, come se ricordasse solo in quel momento di essere un bambino, un bambino che poteva essere felice come quegli altri, quelli bianchi, così diversi, così uguali.
Mi domando spesso come sarebbe stato poi, quando saremmo cresciuti, diventati uomini insieme, se avremmo continuato a parlare solo con gli occhi o se prima o poi Lui avrebbe detto qualcosa, quello che pensava sulle cose e su noi lì, a rifare da capo il suo mondo, a portare ricchezza e schiavitù e violenza e strade e ospedali e palazzi e chef da quell’Italia che lui certo non sapeva dov’era, che forse immaginava rigogliosa e lontana. Poi avvenne. Quello che in un primo momento veniva sussurrato nei salotti, a colazione davanti al giornale, avvenne. Attrito della storia. Come un serpente scivolò sospettoso e impaurì le tavole eleganti ricolme dei nostri avanzi e di bottiglie vuote. Una notizia sussurrata che si inoltrò scaltra nelle serate musicali, si insinuò non creduta tra corpi danzanti e restò attaccata, sopita dentro le coscienze, stanziando sui flute di champagne. Quando mio padre mi svegliò la casa era già un subbuglio di voci e gambe che correvano e rumori di mobili spostati e porte sbattute. Italo ordinava, ammoniva, gridava, caricava e ributtava giù dall’auto ciò che non poteva stipare. Restavano sui tavoli, in disordine, l’orgoglio dell’argenteria, dei cristalli, dei calici, dei mestoli massicci, i tovaglioli ricamati con la scritta Waddan regno italico di Libia, le zuppiere pesanti, le lenzuola di seta, i mobili francesi, i lampadari di murano. Nell’aria riecheggiavano, sbattendosi addosso, le parole: colpo di stato, fucili, tutti via, a breve, presto, sbrigatevi, ci uccidono. Nelle due macchine oltre un baule alla fine eravamo entrati solo noi. Da lontano si vedeva il fumo e un bagliore di rosso che invadeva la linea nera dell’orizzonte della notte. Tramestio, scalpiccio. Sono sul sedile in braccio a mio fratello e grido stirando le braccia verso la strada che lasciamo dietro. L’ultima immagine, appassita dal vetro fumé del finestrino, sono gli occhi buoni di Aria mentre le sparano e cade e quelli di Lui che in piedi, col corpo rassegnato, immobile, come se l’aria bollente della notte l’avesse congelato per sempre, per l’ultima volta, guarda l’auto andare via.
Silvia Penso
In copertina @priscill_o

