
Scintilla
Non ci penso spesso, ma quando mi capita ricordo quell’episodio come se ancora fossimo in quel mattino di maggio della quinta elementare.
Io occupavo l’ultimo banco della fila, quello vicino alla finestra. In quinta elementare stare all’ultimo banco non voleva ancora dire essere la peggiore: ero stata sistemata lì per caso all’inizio dell’anno dalla maestra e non mi ero mai lamentata.
Proprio davanti a me sedeva la mia migliore amica, J., e due banchi alla mia destra c’era L., la bambina che in quel momento occupava il secondo posto nella classifica delle amiche – classifica che avevo stilato l’anno prima e che era in continua evoluzione.
La posizione di J. in quella lista era invece sempre la stessa: salda al primo posto, senza dubbio la più cara fra tutte.
Perché J. era speciale e ancora oggi, sebbene non la veda più da tanto tempo, sono convinta che dentro di lei ci fosse, e credo ci sia ancora, ovunque lei sia, una scintilla.
Era lei quella che inventava, durante la ricreazione, le complicate trame dei nostri giochi, assegnava a noi tutte, i poteri di fate più adatti a ognuna, ed era sempre lei che ci spingeva in cerca di mostri negli angoli più oscuri del cortile dove di pomeriggio le maestre ci portavano a giocare. Se ci sentivamo a tutti gli effetti come le protagoniste dei cartoni giapponesi che guardavamo in televisione dopo essere uscite da scuola, il merito era di J., l’inventrice di storie.
Io all’epoca ero la principessa di zaffiro, L. quella di smeraldo e lei, J., quella di topazio, perché le piaceva il giallo. Quando scoprimmo che, in realtà, il topazio era meno prezioso delle altre pietre, concordammo sul fatto che gli altri si sbagliavano e che non era assolutamente vero che il topazio valeva meno. Nella nostra fantasia vivevamo su pianeti diversi, tutti incredibilmente somiglianti al cortile della scuola e in comunicazione tra loro grazie a un portale che altro non era se non il canestro senza rete di un fatiscente campo da basket. Era bello immergersi in una nuova avventura senza prestare la minima attenzione a quello che succedeva intorno a noi e agli altri bambini che giocavano, sul pianeta Terra, ad Acchiappa Fulmine. Fra quelli che non partecipavano ai nostri giochi c’era un gruppo di ragazzine che ci erano antipatiche. Erano capitanate, o almeno così davano ad intendere, da R. Magra e biondissima, R. ragionava come una ragazza più grande ed era solita prendersi gioco dei nostri occhiali e delle nostre rotondità infantili.
Se fossimo state alle medie forse i suoi insulti ci avrebbero rese insicure e taciturne, ma per noi, che allora dei nostri rotoli di ciccia nemmeno ci accorgevamo, lei non era la bella della classe, né la cheerleader delle serie tv americane che avremmo iniziato a guardare solo pochi anni più tardi. Per noi lei era la cattiva, la strega e, in alcune delle trame più complesse delle nostre storie, l’incarnazione dell’oscurità.
Così una volta l’aveva definita J., e a noi quel termine, “incarnazione”, era sembrato perfetto per una strega come R., anche se non ne conoscevamo il significato.
J. era soprannominata la Poetessa. La chiamavamo così da quando le maestre avevano cominciato a complimentarsi con lei per i versi che componeva in classe. Nessuno già ricordava più di quando, cinque anni prima, J., che veniva dall’Argentina, era arrivata a scuola parlando un italiano stentato. Non so se i suoi componimenti poetici, quelli che scriveva per diletto sulle pagine di quei microscopici taccuini dalle copertine di plastica a fiori, sarebbero giudicati di qualche valore artistico. Oggi che quei versi sono persi, mi permetto di pensare di sì. Ricordo che ammiravo molto le parole di J. e credevo che un giorno ne avrei tratto un pezzo, quando sarei diventata la più grande cantante-scienziata del mondo.
Questo regno di poesia era, però, confinato per lo più ai nostri giochi all’aperto. Quando eravamo in classe, le cose andavano diversamente. Come in ogni classe delle elementari che si rispetti, anche nella nostra c’era una piccola economia fatta di scambi di figurine e carte da gioco. Si trattava di un vero e proprio commercio che contemplava la chiusura di affari e scambi di oggetti il cui valore mutava con le mode e le stagioni.
Nel nostro mercato, proprio al quinto anno, arrivarono gli album di adesivi. Gli sticker – così li chiamavamo noi – si compravano a pacchetti nei negozi di articoli per la casa e, al contrario delle figurine, si trovavano di infinite varietà. Di solito si conservavano negli album di fotografie vuoti, quelli piccoli con le tasche di plastica trasparenti.
Il gioco era però sempre lo stesso: ognuno ne aveva di tipi diversi e, quando ne adocchiavi qualcuno che apparteneva ad altri e che ti piaceva, dovevi proporre uno scambio equo con uno dei tuoi.
Il gioco era divertente perché di solito ogni giorno si potevano sfoggiare gli adesivi di un pacchetto nuovo: quelli con i cagnolini, quelli con le lettere brillantinate con cui comporre il proprio nome, addirittura – i più ambiti – quelli fluorescenti che si illuminavano al buio.
Io possedevo un album verde, bellissimo, ammirato da tutte le bambine della classe per la sua copertina colorata e per il suo ordine rigoroso. Lo conservavo proprio nel sottobanco dove ero solita tenere anche libri e quaderni.
J. era l’unica che non faceva caso al mio album, l’unica a non interessarsi a transazioni e scambi. Nelle ricreazioni della mattina si annoiava. I suoi non sembravano capire l’utilità di questi adesivi e quindi evitavano di comprargliene: si giustificava così e non dava mostra di soffrirne.
Quel mattino di maggio io e l’intera classe ci eravamo precipitati nei bagni per cambiarci le scarpe e rinfrescarci, come succedeva sempre dopo l’ora di educazione fisica.
Le maestre facevano fatica a controllarci e durante quegli spostamenti spesso capitava che qualcuno cadesse, si facesse male o litigasse. Non compresi mai cosa e come accadde, ma deve essere stato proprio mentre tutti percorrevano avanti e indietro il corridoio che portava dalla classe al bagno.
Quando, suonata la campanella di fine ricreazione, tirai fuori l’amatissimo album, mi accorsi subito che qualcosa non andava: non avrebbe dovuto essere così leggero.
Scorrendo le pagine in cerca di adesivi che volevo scambiare, mi accorsi che molti di quelli, fra cui alcuni dei miei preferiti, erano spariti.
Ricordo che non piansi: pensai di essere troppo grande per le lacrime. Tuttavia, fui sorpresa e delusa di scoprire che non ci era più concesso lasciare oggetti nel sottobanco, senza temere che bambini come me derubassero gli altri. Avvisai tutti della rapina e della mia intenzione di trovare il colpevole.
Fu L. la prima a venire in mio aiuto. Cominciò a far domande fingendosi una detective: dove avevo lasciato l’album, quando mi ero accorta della sparizione e altre cose così. Ben presto l’indagine divenne una missione, un nuovo gioco. E così io e L. passammo il resto della giornata a interrogare i soggetti più dispettosi della nostra classe, quei bambini che lanciavano penne e carta igienica dalla finestra e che spintonavano gli altri senza motivo.
Ma per quel pomeriggio non ottenemmo confessioni e non riuscimmo a ritrovare gli sticker rubati.
Quando tornai a casa, raccontai quello che era successo a mio padre, che mi consolò e mi disse di lasciar perdere, che chiunque fosse stato non dovevo pensarci, che dovevo perdonarlo e che di adesivi ne avremmo comprati altri.
“Certo però che è strano. Perché si sono messi a staccare gli adesivi uno per uno e non hanno preso l’album?”, commentò papà.
A questo, io e L. non ci avevamo pensato ed era sicuramente un’osservazione preziosa per stanare il colpevole.
Prima di andare a dormire, quella sera, mi figurai il ladro che si nascondeva tra i banchi e che perdeva tempo a staccare gli sticker dall’album verde. Che ne aveva fatto? Li aveva strappati e buttati, solo per farmi un dispetto?
L. e J. il giorno dopo mi attendevano all’ingresso della scuola con grandi notizie per me: avevano sentito dire dai ragazzini di un’altra classe che R. aveva ammesso di aver rubato gli adesivi.
Il mistero si era risolto da solo nel più banale dei modi: l’incarnazione dell’oscurità era la colpevole, il gioco era finito. Davanti a una confessione spontanea, che pure non avevo ascoltato con le mie orecchie, non c’era altro da fare che affrontare R.
Il banco di R, come al solito era circondato da bambini intenti a scambiarsi adesivi. Ricordo che, senza troppi giri di parole, la accusai di aver rubato i miei sticker. Ovviamente negò.
Me ne tornai al mio banco a fine ricreazione così come me ne ero allontanata. Non ero riuscita a far ammettere nulla a R., non ci eravamo nemmeno prese a capelli. Ero arrabbiata, ma felice di aver risolto il mistero e contenta che le mie amiche mi avessero aiutato. Degli adesivi non mi importava già più nulla.
Il peggio venne dieci giorni dopo. Quando a ricreazione tirai fuori il mio album, che era stato riempito di sticker più belli e nuovi di quelli che avevo perso, anche J. decise di unirsi al gruppo delle ragazzine riunite intorno al mio banco. Con mio grande stupore, J. tirò fuori il suo album personale, dicendo che una sua vecchia amica le aveva regalato per generosità molti adesivi vecchi che a lei non interessava più scambiare.
J. prese a scorrere le pagine.
Ero, e sono, una persona distratta, sì, ma sveglia.
“Ma quelli sono i miei adesivi…”
“Cosa?”, chiese J.
“Quelli che mi hanno rubato! Sono miei!”
“È stata la mia amica a darmeli!”
“Ma come è possibile? Quelli sono i miei! Come ha fatto la tua amica a prenderli?”
“Erano suoi, non li ha presi a te. Magari avevate gli stessi sticker.”
“Ma quelli sono proprio gli stessi che hanno rubato a me! Sei stata tu a prenderli!”
L’accusa era pesante, ma come poteva non essere così? Ricordavo esattamente quali adesivi mancavano, e adesso me li ritrovavo lì, tutti insieme, in ordine e in bella vista sull’album della principessa di topazio.
“Ma come ti permetti?” J. scoppiò a piangere e corse in bagno. Alcune la seguirono per consolarla.
A me dispiaceva che piangesse, ma cosa avrei dovuto fare? Come potevo ignorare che era stata proprio lei a rubare i miei adesivi? Dovevo ammettere che la ladra non era R., non era la strega cattiva di cui non ci si poteva fidare, ma che fosse invece colpa della poetessa, la principessa di topazio, la mia migliore amica.
I cartoni animati giapponesi forse fanno male. O forse no. Forse va bene, fino ai dieci anni, pensare che nel mondo esistano persone speciali dai poteri magici in grado di scagliare lampi di luce per sconfiggere una minaccia oscura che viene da qualche altra galassia. Però poi succede di svegliarsi da quel mondo fatato. Fu così che, proprio in quel giorno di maggio di tanti anni fa, realizzai che la mia amica era una ladra. Capii che non volevo perderla nonostante adesso sapessi che in lei non c’era solo luce. E soprattutto seppi che né in questo mondo né negli altri sarei mai stata la paladina di niente.
J. non mi chiese mai scusa, immagino si vergognasse. L. invece cercava giustificazioni contorte pur di provare a nascondermi la verità: si convinse che l’amica di J. era anche amica di R. e che doveva essere stata R. a commettere il furto per poi cedere gli sticker in modo che finissero prima nelle mani dell’amica di J. e poi in quelle di J. stessa.
Non credetti per un attimo alle parole di L. ma feci finta di essere d’accordo con lei. Andai da J., mi scusai e l’abbracciai. Dopo tutto era ancora la Principessa di topazio, la poetessa, la mia migliore amica.
Cecilia Cerasaro
In copertina Domitilla Marzuoli @domimarzu.art

