
editoriale luglio
Il n’y a pas de règles. Non ci sono regole.
Mi ha detto qualche sabato fa la mia amica francese Marine. E da allora non faccio che pensare a questa frase.
A questa frase e al fuorigioco.
Due concetti apparentemente antitetici eppure, secondo la mia mente, legati tra loro. Purtroppo ho terminato la psicanalisi ormai da un pezzo e tutte le volte che entro in questi trip amletici, che mi perseguitano per giorni, l’unico modo che ho per uscirne è indossare un costume, chiudermi per un quarto d’ora in una sauna e cercare di sviscerare la questione chiedendomi – come avrebbe fatto la dottoressa – cosa evocano in me questi pensieri.
Detto fatto. Blindata in uno spazio circoscritto da travi di betulle, un catino ricolmo di pietre roventi e la temperatura del termometro fisso a novanta gradi, ho cominciato a riflettere.
Non è certo un mistero la disputa del campionato di calcio europeo che è in corso in questo momento storico e non è altrettanto un mistero che, nonostante io non segua il calcio in generale, gli europei e i mondiali sì, mi piace guardarli. Sanno di estate, di leggerezza. E mi fanno pensare a mio padre.
Poco prima di una partita me lo immagino seduto su una sedia con il busto proteso sul tavolo, i pugni chiusi pronti ad abbattersi sulla superficie legnosa se i giocatori della nazionale sbagliano un tiro, un’azione. Qualcosa. E lo vedo anche balzare esultante dopo un gol, sempre con quei pugni chiusi, questa volta in segno di vittoria. È un’immagine nitida, lontana che da qualche parte del mondo ancora si ripropone. Uno dei pochi bei ricordi di mio padre che mi commuovono e che mi strappano sempre, ancora un sorriso.
È lui che mi ha insegnato le regole: rimesse laterali, dal fondo, calci di punizione, quando viene dato rigore e quando il calcio d’angolo. E il fuorigioco. Me l’ha spiegato tante volte e non solo lui. Ci hanno provato in tanti con disegnini, monete o quello che capitava a giro pur di simulare un fuorigioco. Niente. Non saprei dire esattamente quando viene segnalato [e mi sembra di capire che vale anche per la maggior parte degli arbitri visto che, per fugare ogni dubbio, sempre più frequentemente si ricorre al VAR – acronimo che sta per Video Assistant Referee, ho scoperto da poco].
Ad ogni modo quello che mi sembra cruciale nel concetto di fuorigioco è la posizione. Della palla, dei giocatori. E il rispetto delle distanze. E del tempo. Un gioco che smette di funzionare se le cose non vanno bene e che prosegue se vanno come devono.
Così, mentre la mia pelle traspirava acqua in abbondanza, mi sono ritrovata a pensare che non stavo più parlando di calcio, ma di rapporti. E se questa riflessione è vera – e lo è – allora perché Marine ha maledettamente ragione con il suo il n’y a pas de règles? E non sto alludendo solo all’amore, come invece era nelle intenzioni della mia amica francese. Si presta perfettamente a ogni tipologia di rapporto, perfino a quello lavorativo: due persone, due squadre costantemente minate da un fuorigioco. Perennemente a rischio. Eppure, nella vita vera, non c’è VAR che tenga.
D’un tratto il buon vecchio Aristotele mi si è palesato davanti e a quel punto mi sono decisa a uscire dalla sauna. Solo dopo aver messo la testa sotto un bel getto di acqua fredda, ho realizzato che sì, per il principio di non contraddizione, le due affermazioni – non ci sono regole e fuorigioco – sono vere entrambe.
Nella vita vera ci sono troppe variabili a cui prestare attenzione e non si può ridurre tutto a schemi che possono essere seguiti e/o che possono essere infranti. Possono anche non esistere regole.
Ancora in accappatoio e grondante di acqua e sudore ho cercato su internet Aristotele e la logica classica. Poi ho aperto il mio taccuino e ho trascritto:
Un sistema logico dove siano valide le comuni regole di inferenza e dove sia anche presente una contraddizione, ossia sia vera, completamente vera, un’affermazione e anche la sua negazione, è privo di logica, di struttura, di informazione, poiché tutte le affermazioni sono vere, comprese le loro negazioni.

