
Vortici
Lei è sdraiata su un telo azzurro. Sotto di lei una distesa di sabbia dorata. La visuale è buona, riesco a seguire ogni movimento. È lì da una ventina di minuti. Ho pensato subito fosse una sirena, poi ho visto le gambe. Allora mi sono detto: è una dea. Una dea distesa verso un sole che non splende. È immobile da venti minuti. Solo il suo petto, si solleva e si abbassa con regolarità, quasi seguendo una specie di picchiettio costante. Una volta, un tizio mi ha detto che sulle spiagge le dee non sono una novità. Le riconosci subito: sono vicine eppure irraggiungibili. Partecipano alle nostre stesse feste, si innamorano di noi comuni mortali. Ma sono a chilometri da noi. Le guerre, un tempo, si combattevano ora per un essere divino, ora per un altro dio. Poi queste divinità ci hanno lasciato al nostro destino, hanno lasciato noi liberi dalle loro passioni, e nonostante tutto abbiamo continuato a ucciderci tra noi, a portarci sofferenza. Per nulla. Forse è stata tutta questa prepotenza umana ad aver allontanato gli dei da noi.
La dea si siede. Alza la schiena: una piattaforma aliena, una navicella che spero mi porti via.
La dea prende la borsa accanto a lei, ficca una mano dentro e cerca qualcosa. Vorrei legarmi come un fiocco a quelle gambe, farmi trasportare nei suoi viaggi interspaziali e diventare una parte di lei.
Tira fuori un paio di calze bianche, di quelle che arrivano sopra la caviglia. Sembra muoversi per essere guardata. Sembra recitare una parte di una qualche commedia. O forse una tragedia, non saprei. So che a ogni suo minimo movimento ogni essere umano nelle vicinanze si volta a guardarla. Anche io resto imbambolato a fissare i suoi piedi che spariscono dentro calzini bianchi, un movimento tra il sensuale e il divino. Tarantino potrebbe girarci un film intero su questa scena, penso. In effetti potrebbe essere la musa di metà dei registi di Hollywood.
Poi infila di nuovo la mano nella borsa e tira fuori un paio di scarpe rosse. Scarpe con il tacco. Sta indossando le scarpe con il tacco in spiaggia. Mi viene da ridere, ma c’è poco da ridere, penso mentre la guardo camminare con passo veloce verso il mare. Sono spiazzato, mi alzo di scatto e mi avvio verso di lei. Lei che cammina verso il mare e sembra fluttuare. Ora corro verso di lei, o meglio, vorrei correre ma non so perchè, sento di andare a rilento, come se qualcosa cercasse di tenermi imbrigliato. Lei entra in acqua. Le scarpe scompaiono dalla mia vista. Allora inizio a urlare e cerco di sconfiggere l’inerzia dell’aria che mi trattiene. La sabbia, a ogni mio passo, sembra un vortice che mi porta giù. Una volta a riva, mi butto in acqua, a poca distanza dalla dea che sembra svanire nel blu profondo. Anche io mi inabisso all’improvviso. Urlo aiuto dentro il mare, ma sono muto. Lotto per riemergere. Cerco di visualizzare la dea perchè possa miracolarmi, dopotutto è una dea. Non ce la faccio. Allora mi lascio andare giù e con mia sorpresa galleggio sprofondando. Giù. Giù. Giù ci sono le scarpe rosse e un paio di calze bianche. Volteggiano in cerchio. Vortici. Giù in profondità. Non ci penso troppo: con le ultime forze cerco di acchiapparle, poi sento il respiro mancare e un liquido nero prende possesso della mia mente.
Indosso un abito elegante con tanto di cravatta e camicia. Ma non mi piaccio, non mi sento a mio agio. Una sedia bianca minimalista regge il peso del mio corpo. Una griglia di voci confuse intorno a me. Sembra di essere a un matrimonio o a uno di quei balli in cui la gente cerca di accasare i propri figli. La sala è occupata da un enorme tavolo. Cerco volti familiari e non solo facce sconosciute, indefinite. I loro tratti sfumano in stereotipi abbozzati della mia mente. Molti somigliano a Di Caprio, altri a De Niro e alcune donne ricordano Margot Robbie. Mi spaventano. Chiacchierano e mangiano senza badare alla diversità della mia faccia. Nel senso: non sono mica un attore io. Sono uno qualunque. E solo per un attimo, mi chiedo: a chi di loro potrei assomigliare? Poi lo sguardo cade giù, sul pavimento: una pila di quaderni, riviste, libri. Ho l’impulso di scrivere qualcosa. Tasto, con la destra, il taschino della giacca per assicurarmi che la mia bic sia ancora lì. Sono impacciato nei movimenti tanto da non riuscire a sfilare al primo colpo la penna che capitombola proprio sotto al grande tavolo. Stringo la mano in un pungo, cerco di contenere la rabbia e il disagio. Mi abbasso e scivolo con le ginocchia a terra. D’un tratto sono circondato da una costellazione di piedi. Scarpacce nere che riescono a mettermi paura. Inizio a tastare il pavimento per trovare la bic, ma nulla. E poi, le vedo. Nella triste somiglianza di scarpe e scarpine, ecco il paio di tacchi rossi, a vestire un paio di calze bianche, luce per il tavolo e per il mio volto. Nella testa flash di sensazioni simili a montagne russe, ricordi vaghi che non evocano esattamente delle immagini. So, però, che quelle scarpe mi dicono qualcosa. Mi stanno dicendo qualcosa. E le voglio. Voglio toccarle, prenderle. E poi desidero quelle gambe. Inizio a gattonare sotto il tavolo in quella direzione. Proprio quando penso di averle raggiunte, come se fossero dotate di vita propria, le scarpe si muovono e gironzolano intorno al tavolo. Potrei allungare il mio braccio e agguantare le caviglie, ma chi le indossa potrebbe cadere e farsi male. Allora le seguo. È fastidioso gattonare, ma non ci penso. Riesco solo a percepire la sinuosità del tacco che si solleva dal pavimento assieme al suo tallone, un tutt’uno. Poi, la punta che fodera le dita dei piedi imbiancati dalle calze, si alza. Per atterrare giù. Giù. Senza schianto. Con delicatezza, per poi ripartire. Un altro passo. Forse amo le scarpe, le calze e anche chi le indossa.
Le gambe, quelle scarpe si distaccano dalla costa del tavolo e prendono il largo e allora balzo da lì sotto e inciampo su una coppia intenta a limonare. Chiedo scusa e scappo via. Seguo il rumore dei tacchi e mi ritrovo all’entrata di un bagno. Una targa dice: unisex. C’è un lavandino, un cestino e due piccoli box con i water. Le porte sono chiuse. Busso su entrambe e non ottengo risposta. Poi sento lo sciacquone. Non ci penso troppo e forzo la porta. Eccole le scarpe rosse che affondano in un vortice d’acqua che inizia a straripare dal bordo del water. Lei non c’è più. Sta scappando, ancora. Seguo anch’io quel flusso e mi tuffo, scendo in profondità e perdo i sensi.
C’è brusio intorno a me. Gente, gente e ancora gente che parla con parole sfocate e inutili. Sono in una sala cinematografica. Sono tutti, ancora una volta, indefiniti. Possiedono occhi, bocca, naso e nessuna personalità. Sono uguali, potrebbero sovrapporsi, uno sull’altro, in una pila che toccherebbe il cielo, eppure sarebbe uno solo. Uno qualunque. Su ogni poltrona, identica a quella di sopra, di sotto, a destra e a sinistra, è seduto un essere identico a quello con cui chiacchiera di sopra, di sotto, a destra e a sinistra. Si spengono le luci, il brusio diminuisce, provo a concentrarmi su quello che si vedrà. Lo schermo rimane nero a lungo, forse troppo. Poi qualcosa inizia. Una strada, un piccolo vicolo. Il sole illumina tutto. Cambia prospettiva. Immagino la macchina da presa su un carrello che si muove in uno spazio tra il marciapiede e la strada. E poi eccole. Scarpe rosse, calze bianche. La telecamera le segue. Il brusio ancora lieve eppure presente, si zittisce di colpo. Tutti gli occhi di quei volti ignoti sono puntati su quell’immagine, desiderano le scarpe, le calze, l’essere che le indossa. La scena continua a lungo, senza cambiare, senza fermarsi. Sento montare una voglia incontenibile di afferrare, prendere le scarpe, aggrapparmi a quelle gambe sottili e divine. Le scarpe si fermano. La telecamera rimane sul soggetto, la platea indefinita, si volta verso di me. Sento mille e più pupille puntate sul mio corpo. Qualcuno si gira del tutto, alcuni solo di pochi gradi, altri, da dietro, si alzano per guardarmi meglio. Cerco di capire. Cosa succede? Perchè guardano me? Perchè proprio me? Loro fissano me, io fisso lo schermo. Lo schermo che contiene quelle scarpe. Il colore, sfumato nel bianco, continua a chiamarmi, anche se, ormai, sembro l’unico a cui interessa ancora il soggetto del film, l’unico in grado di capire la bellezza divina che la telecamera vuole mostrare. Allora mi alzo, poggio i piedi sul sedile e allungo la gamba verso lo schienale del sedile davanti. Gli altri, sempre anonimi e indefiniti si alzano e lasciano libero il passaggio. Inizio a saltare da uno schienale all’altro. Dimentico tutto e tutti e mi concentro solo sul rosso: una calamita che mi attrae. Non posso resistere. Arrivo in prima fila e piego le gambe cercando di ottenere la massima potenza nel salto finale. Le scarpe sono lì, le calze, la dea, non scappa, mi attende, finalmente. Salto, rimango in aria per qualche secondo, poi vengo abbracciato dall’inconsistenza liquida dello schermo. Mi accoglie e non respiro più. Vado giù. In profondità. Risucchiato, ancora una volta, da un mulinello d’acqua. Vortici. Scarpe rosse e calzini bianchi.
Sembra un sogno.
O forse è la vita vera.
Giuseppe Fiore
In copertina @pinkpeachillustrate

