
Amaro
Non c’era luce quella sera: il paese era quasi completamente al buio. Senza dettagli, senza difetti, tutto nascosto nell’ombra.
Le strade erano deserte con i vicoli che profumavano di pietra, umidità e sollievo. Le poche persone fuori avevano lo sguardo basso, camminavano anonimi e timidi come se tutto quel buio fosse una loro colpa. La piazza era vuota e illuminata. Le luci arancioni dei lampioni, pesanti, inchiodavano il silenzio, la malinconia di una notte solitaria, di un piccolo borgo mezzo morto che aspetta solo la neve per vestirsi di bianco e riposare.
La piazza era vuota, non come due giorni prima. Prima della festa del paese.
Proprio quel pomeriggio ero sulla terrazza del bar. Da lassù si possono vedere tante cose.
C’erano famiglie, bambini, il prete (quello non manca mai), ragazzi di ogni età, chi cercava droga, chi voleva scopare (che poi tutti vogliono scopare!). C’erano coppie scoppiate e coppie di comodo, stranieri, professori, la banda e lo scemo del villaggio.
Lui sedeva accanto a me. A volte è piacevole la sua compagnia. Non annoia.
Povero ragazzo a vent’anni assunse in una notte non so quanti allucinogeni ed è impazzito completamente. Cazzo, tutti sarebbero impazziti! È stato internato per un po’ in un centro di riabilitazione. Adesso lo sedano, lo riempiono di medicine e poi lo consegnano alla civiltà a subire la noia quotidiana di tutte le cosiddette altre persone normali.
Mi ricordo ancora quando andai al funerale di suo padre: all’epoca era ancora sano di mente.
Ricordo che parlava, rideva e piangeva come facciamo tutti, adesso non più. Ricordo che, in quella circostanza mi fece assaggiare un liquore prodotto in casa da suo padre. Ne era veramente fiero e continuava a ripetere che aveva un sapore spettacolare. Forse, ricordo che pensai, lo dice perché ha perso il padre da poco. E comunque, aveva ragione: quel liquore alle erbe era veramente buono.
Ora è qui accanto a me con il suo busto ciondolante: un metronomo che scandisce lo spazio avanti e dietro sé. Quando annunciarono la notizia in questo stesso bar dove ora sono seduto, dissero che i dottori non avevano avuto dubbi: con estrema sicurezza affermarono che in lui c’era già una predisposizione alla follia e che l’aver assunto alcol e allucinogeni a concentrazioni elevate, avevano solo aggravato la sua mente già oltremodo sconvolta.
Mi sembra di vederlo l’ultima notte lucida della sua vita a bere il liquore alle erbe di suo padre, forse per riempire quel vuoto improvviso, quell’abbandono che tutti prima o poi siamo costretti a subire. Affrontare la morte non è mai semplice e credo che non ci sia il modo giusto per farlo. Lui, quello che oggi è conosciuto come lo scemo del villaggio, ha optato per scelte discutibili, disperate, sicuramente sofferte. La consapevolezza è un pregio. Il saper rimanere lucidi e coscienti in determinate situazioni è quasi un superpotere. Lui non aveva né uno, né l’altro.
Eravamo lì, io e lui, a guardare da quella terrazza la piazza del paese con tutta quella mescolanza di gente.
Da lì le persone sembravano tanti animali che facevano a gara a sembrare più belli e intelligenti: una sfida contro il prossimo per far vincere il proprio egoismo.
C’era anche il sindaco che sorrideva con la sua grande bocca. Salutava e sorrideva. Comprava voti, accordi. Salutava negozianti e sorrideva. Mi venne una voglia matta di scendere giù e urlargli contro tutto quello che pensavo. Gridargli addosso per metterlo davanti alla verità. Non che avessi qualcosa contro di lui come persona, ma solo su quello che rappresentava e come lo realizzava.
Non lo feci. Mi trattenni, accesi una sigaretta e mi rivolsi al mio amico che era diventato matto (e forse un giorno lo diventerò pure io). Lui non mi annoiava. Gli dissi quello che avrei voluto fare.
Si mise a ridere e poi mi disse:
– Se lo fai poi ti fanno come a me. Oggi mi hanno riempito di medicine, io non volevo. Dicono che ho fatto il cattivo. Allora mi hanno preso e mi hanno riempito.
– Che hai fatto?
Aveva gli occhi fissi puntati sul pavimento, stringeva le mani a intervalli regolari.
– Dicono che ho fatto il cattivo, mi sento pieno.
– Di medicine? Di cosa ti senti pieno?
– Sì mi hanno riempito. Non si può fare però così. Non è giusto Pfffff.
– Mi dispiace per questo.
Parlava lentamente, con fatica, come se cercasse le parole in mezzo alla piazza.
– Sì mi hanno riempito! Dicono che al centro ho fatto casino. E ora non so che succede.
– Perché, che deve succedere?
– Mi hanno detto che mi devono indirizzare, devono… mi devono indirizzare
– Dove?
– Mi devono indirizzare, mi hanno riempito pfffff!
Muoveva il suo corpo con cadenza regolare e tra una frase e l’altra soffiava, come se buttasse fuori aria marcia.
Mi fece pena. Nemmeno i matti sono più liberi. Lo lasciai lì a soffiare, mentre farneticava con se stesso.
Scesi in piazza: c’era più gente di prima. L’odore era cambiato, era aumentato il sudore. Ma tutto questo non importava.
Lei iniziò a suonare.
Si alzò in piedi, imbracciò il suo violoncello e iniziò il suo assolo. Ne veniva fuori un suono stupendo.
Era bellissima, e non per come era vestita o per il modo in cui portava i capelli, ma per quello che era, per come suonava quel violoncello. Era libera. Chiudeva gli occhi e suonava. Era davvero libera. Non come noi.
A lei non davano medicine. A noi impongono leggi. Comportamenti, parole e frasi da dire e da sopportare. Lei invece sembrava libera da tutto questo. Nel momento in cui suonava sembrava librarsi al di sopra di tutto.
Di tutto. Anche di me.
Due giorni dopo sono qui, in questa piazza che adesso è vuota. Vuota ma illuminata. Le luci arancioni dei lampioni diluiscono i dissapori, sembrano sfumare la malinconia del silenzio.
Chiudo gli occhi e la rivedo. È lì davanti a tutti, davanti a quel misero pubblico. Ancora lì che sta suonando, è ancora lì sopra ogni cosa. Libera e bellissima.
Forse adesso non c’è proprio nient’altro che conta.
Niente stronzate. Niente scopate. Droga alcol famiglie bambini spose bar la piazza i negozianti zanzare la chiesa tafani piccioni preti sorrisi scontrini cerotti lampioni liquori alle erbe. I sorrisi del sindaco.
Marco Ghiori
In copertina Costanza Lindi @in.distanza

