racconti

Le ragazze dell’Aiguille d’Alger

12 luglio 1934

Mia cara Clementine,

mi dispiace scriverti questa lettera dopo così tanti anni di silenzio. Mi dispiace che il pretesto sia la dipartita di una persona cara.

Ho ricevuto un telegramma da Marie proprio ieri, e non ti nascondo che la funesta notizia mi ha distrutto. A quasi settant’anni non credevo di essere ancora in grado di piangere. L’ultima volta è stato per te, in quel lontano giorno d’aprile al Jardin d’essai. Furono così dolorose… Come lo è ora la morte di Fatima.     

Mentre scrivo – e spero potrai perdonare l’inchiostro sbavato – gli occhi si inumidiscono. Non riesco a credere che Fatima sia morta. Vorrei scriverti parole di conforto, ma sono pietrificato al tavolo del mio studio. 

Fuori dalla finestra sento le urla di due italiani che litigano, eppure mi sembra di essere lì. Mi sembra di sentire le onde del porto di Algeri e i gabbiani in volo.

Mi rendo conto che scriverti queste cose in queste circostanze non è la scelta migliore. Di certo, la morte di Fatima non è un pretesto valido o nobile per rovesciarti addosso venticinque anni di assenza, e probabilmente avrai finito per odiarmi. Come biasimarti. Ma forse serviva proprio un simile dolore per costringermi a prendere la penna e scriverti. Per supplicare perdono. 

Aver scoperto nella maniera più brutale che la morte è una fedele compagna in questo viaggio che chiamiamo vita, ha risvegliato in me la paura di andarmene da questo mondo senza averti chiesto scusa, o almeno senza averti spiegato cos’è successo. Forse la morte di Fatima mi ha fatto capire che un giorno non ci saranno più Marie, e Rasha, e poi Kamilla. Io. E tu.

Oh, Clementine, non chiedermi come sia possibile, ma mentre scrivevo i vostri nomi mi è sembrato di tornare laggiù, a Rue Omar Merrad, all’Aiguille d’Alger. Con voi. 

Anche adesso, mentre lo sguardo vaga alla finestra, io non vedo i tetti e i comignoli di Parigi che si stagliano imponenti all’altezza dello sguardo. Io vedo voi. 

Sto scrivendo a lume di candela, e vicino al foglio restano gli avanzi della cena. Eppure, nelle narici sento ancora l’odore della strada, del pesce appena pescato e quella puzza pungente di talco che ci faceva sempre ridere.

E poi eccoti sotto la finestra illuminata dal sole. Ci sono i raggi riflessi dalle tende rosse che ti colorano il vestito di mille schegge ballerine, e rivedo il tuo naso sporco di polvere di gesso che si arriccia starnutendo.

Tutto questo mi manca. Mi manca immensamente. E da quando ho saputo di Fatima non passa ora in cui non rimpianga ciò che è stato. In cui non provi rimorso per ciò che ho fatto.

Probabilmente non potrai perdonarmi, Clementine, ma sappi questo. Quando arrivai ad Algeri avevo ventidue anni, ero giovane e pieno di speranza. La Compagnie de l’Ouest algérien mi aveva assunto come assistente dell’ingegnere a capo della linea fra Tlemcen e Lella-Marnia, e io non dovevo far altro che restare negli uffici di Algeri a smistare i telegrammi da Parigi, i nuovi ordini, le lettere di protesta o quelle che presentavano problemi lungo la tratta. 

Ero felice. Algeri era profumata e coloratissima, ma mi sentivo spaesato e solo, circondato da colleghi anziani oppure da quelli più giovani e scapestrati. E poi ho conosciuto te.

Ti ricordi il nostro primo incontro? Ero entrato nella tua sartoria per farmi confezionare un vestito elegante per la festa di inaugurazione di una nuova sede della Compagnia in città, e tu mi hai preparato quell’abito bianco che vestiva perfettamente le spalle. Quanto abbiamo riso, in quei giorni… E quanto eri bella. Ti ricordi quando ti dissi che non avevo mai visto una donna bella come te? All’epoca ero davvero stupido e sdolcinato, però credimi se ti dico che ero sincero.

Ricordo ancora le passeggiate ai giardini e le cene sul tuo terrazzino. Durante gli anni della guerra ci ho pensato spesso, e in realtà ci penso ancora. Ho pensato alle centoventi mattonelle che formavano il tuo balcone, alla ringhiera arrugginita, al tavolino pieghevole che pendeva verso il basso seguendo la linea del terrazzo, alla mia camicia bianca a maniche corte e al tuo vestito giallo. E poi le candeline dentro i bicchieri rossi, i piatti coi fiori, il pane bagnato nel sugo, i tuoi occhi luminosi.

Ricordo che cominciai a venirti a trovare tutti i giorni. Passavo ogni ora libera dal lavoro alla sartoria, ed è lì che ho conosciuto le tue clienti preferite. Fatima, Marie, Rasha, Kamilla… 

Diventammo la coppia del quartiere. Il vecchio Hassan mi trattava come un caro amico, e questo mi rendeva più felice di qualsiasi altra cosa.

Ti ricordi quando Rasha si innamorò di quel marinaio? Io e te l’abbiamo accompagnata all’appuntamento e le abbiamo dato i consigli più disparati. 

Le nostre ragazze dell’Aiguille d’Alger…

Ti confesso che prima di mettermi a scrivere questa lettera ho riaperto le vecchie scatole. Non ricordavo neanche più cosa ci fosse dentro. Ho ritrovato tante cose: stoffe, lettere d’amore, menù del nostro caffè. Ho ritrovato persino il vecchio acquerello che avevi dipinto tu, quello con le ragazze nei loro vestiti colorati – quelli che amavano indossare solo di domenica, chissà poi perché. Sai, l’ho appeso qui di fronte al mio tavolo di lavoro. Eri così brava… Hai ancora i miei ritratti?

Come ti dicevo, la notizia della morte di Fatima mi ha distrutto: ha come portato indietro le lancette del tempo, e coi ricordi ho rivissuto tutti quei bellissimi anni. Poi le lancette hanno ripreso a girare nel verso giusto e tutto si è infranto. Come lo specchio che abbiamo fatto cadere durante quella furiosa litigata poco prima che io partissi. 

Ora lo so: è stato sciocco accettare di tornare in Francia per aiutare nel conflitto. Mi hai pregato di non partire, lo so, ma come avrei potuto fare diversamente? Lì, qui, c’era e c’è ancora la mia famiglia.

Ho pensato più volte di scriverti, ma alla fine non l’ho mai fatto. Non so se fosse per paura che tu mi avessi dimenticato o per non voler scoprire che c’era un altro al tuo fianco. E poi, inevitabilmente, i mesi e gli anni sono trascorsi senza che me ne accorgessi, e alla fine scriverti sembrava inopportuno. Ma adesso che Fatima è morta, il dolore e i ricordi sono così saldamente intrecciati da rendere superfluo qualsiasi scrupolo.

Ho detto tutto ciò che dovevo. Ho rimpianto tutto ciò che c’era da rimpiangere, e ora mi sembra di essere quella poesia di Rimbaud: je ne parlerai pas, je ne penserai rien. Perdonami, se puoi, e se non potrai lo capirò.

Spero tu stia bene, e che anche le altre ragazze stiano bene. Da parte mia, vi ricorderò per sempre come eravate in quella domenica pomeriggio di giugno, quando dipingesti l’acquerello che ho ritrovato. Ti ricordi? Le ragazze indossavano i loro vestiti colorati: blu per Kamilla, rosa per Rasha, verde per Fatima e giallo per Marie. Se dovessi scegliere, questo sarebbe il mio ricordo più bello. 

Sono passati tanti anni, ma se chiudo gli occhi ti rivedo ancora davanti ai colori della città più bella del mondo, mentre passavi gli acquerelli sul foglio e poi, per divertirti, mi sporcavi il naso di blu.

Tuo, Etienne

Alessandro Mambelli

In copertina Chiara D’Onghia