racconti

Kompong

Siccome ero nel mio periodo vintage stavo ascoltando i Love.
Non so cosa pensavo di trovare in Cambogia. Forse solo provare qualcosa di diverso, smettere di guardare i visi tristi sul metrò delle otto e trenta, perdermi nel fascino dell’Indocina coloniale o scrutare da vicino la povertà. Quella, intanto, l’avevo incontrata subito nell’orfanotrofio vicino al lago Tonlè Sap.
Era stato un incontro devastante, almeno per me, lei, la povertà, sembrava averla presa meglio: si era incarnata nei corpi magri, nei visi sorridenti dei bambini, sempre nudi, sporchi, che tiravano la gonna dicendo “Madame I’m angry”. E io lì: impotente nel saziare quella fame insaziabile. E a loro mancava tutto. I genitori, le mutande, i quaderni, il cibo, i bagni. In compenso avevano un numero spropositato di cani arancioni al loro seguito e l’acqua del lago che stagionalmente inondava le palafitte spoglie, i desideri e i sorrisi.
È accanto alla povertà che ho conosciuto Andrea.
Abbiamo vissuto un mese con i bambini portando dal nostro mondo penne, pannolini, finta sicurezza e un inglese maccheronico scritto alla lavagna. Loro hanno regalato a noi occhi grandi pieni di curiosità, pozzi profondi e neri dove specchiavamo i nostri sensi di colpa.
Abbiamo dormito dentro amache di tela spessa e fatto colazione con ciotole di riso e banane. La sospensione dalle responsabilità sembrava funzionare come pure l’aver barattato i tramonti dietro i vetri dell’ufficio con i tuffi del sole sul lago aranciato.
Ora possedevamo di nuovo il tempo che, per finta o verità, non riuscivamo a trovare per nessuno, noi compresi. Così, seduti sulla riva, ci ascoltavamo e guardavamo la sera risucchiare la luce dalle cose, dagli alberi, dall’acqua, gettando i minuti a manciate senza far niente, senza pentircene. La natura intorno si bagnava lentamente di un nero pece fino a scomparire, fino a che l’alba eternandosi tornava a ridare alle cose, a noi notturni parlatori di noi stessi e dei massimi sistemi della terra, ai bambini e a quei cani arancioni, i contorni. E di colpo le code, le punte degli alberi e le ciotole riacquistavano ognuno la propria immagine, in modo che potessimo di nuovo immergerci nel nitore, nella vita, nei nostri occhi, i miei e di Andrea, che si guardavano intenti senza dirsi perché. In quelle lunghe notti, tra discorsi, discussioni e contraddizioni, c’era un momento in cui lui col dito, seguiva, in silenzio, il mio profilo stagliato sulla linea dell’aurora e poi finivamo per ridere di niente.
Durante il giorno invece, ci scrutavamo timorosi di qualcosa non voluto che forse germinava: giocolieri in bilico sui fili del non detto, funambuli di una paura, acrobati del lasciar correre.
Andrea l’umbratile, l’erettore di mura glaciali, il bastian contrario.
Io la pindarica, la fumantina, quella che ride sempre.
Poi il nostro tempo è finito, sostituito dal tempo di altri nella giostra sempre in moto del volontariato. Non abbiamo capito se è stato un male o un bene, se abbiamo innescato ambizioni difficili, mostrato falsi scenari. Non sappiamo come i bambini vedano questo venire, inoltrarsi nelle loro vite e poi andare via. Ci hanno solo guardato nascosti ridividere magliette e individualità. Andrea invece ha chiuso la mia valigia di scatto e ha detto “Non andare. Restiamo”. Avrei dovuto dire no: lui è veleno e io sono un nodo spesso di grovigli che nessuna cicuta può sciogliere . E c’è un’altra donna che lo aspetta al di là dell’Oceano. Innamorata come me. Stupida come me.
Perciò ho detto sì.
E così sto ascoltando i Love sopra un pulmino sgangherato che ci fa sobbalzare sulla strada che porta in Vietnam e che solleva una terra rossiccia che stalla sui vestiti e nelle narici. Ai lati, giungla intervallata da coltivazioni di banani e palme, infinite risaie a perdere, un uomo chinato di cui si vede solo il cappello a cono e un bufalo che cammina mansueto dentro i ciuffi piantati tra i solchi d’acqua e il riso. È qui che il pulmino si rompe gorgogliando col singhiozzo che ci fa saltellare tra i sedili e fa svegliare Andrea.
Il guidatore chiama con il cellulare ma non c’è segnale. Proviamo tutti ma niente.
I bambini accorrono curiosi, dietro, le capre. L’autista a segni ci fa capire che va verso di là, che tradotto vuol dire che cerca il primo centro abitato dove qualcuno ne capisca di motori.
Anche le donne ci guardano dalle porte delle capanne, più giù, vicino alle risaie. È ancora presto, l’alba è passata da poco e la bruma si solleva sulla foresta, rimane sospesa in vortici fumosi, spezzati. A questi fumi si sommano nell’aria quelli delle pentole che bollono fuori dagli usci legnosi e gli odori si mischiano: quello di terra, di riso bollito, carne, verdure. I bambini ci prendono per mano, ci portano dalle madri, noi sfiliamo insieme alle capre, felici “E quando ci ricapita” dice Andrea, e per una volta sono d’accordo. Siamo loro ospiti e subito ci mettono in mano una ciotola fumante deliziosa. Il tempo si è nuovamente concesso a noi sottraendoci alla fretta. Ho lavato le ciotole dentro l’acqua sporca di una bacinella storica, poi, raggiunto Andrea, mi sono piegata tutta la mattina per infilare ciuffi d’erba di riso futuro, dentro scalini acquitrinosi in cui più volte i miei piedi sono rimasti incastrati. Andrea ne ha riso tutte le volte.
I nostri stomaci hanno brontolato, così abbiamo diviso i cracker con Arun, uno dei contadini del villaggio. Lui seduto sul bue, noi sulla terra rossa. Immagino aerei che guardano quaggiù noi: puntini nel verde infinito, nient’altro. Arun assaggia e ride e fa assaggiare anche al bufalo. Ha vent’anni e sei bambini. È alto poco più di loro e il suo viso è grinzito, di giovane non giovane, ma che neanche puoi dire che è vecchio, tipo i secchioni in prima liceo da noi. Da dietro lo scambio per i suoi figli. I bambini riportano le capre in casa. Sì, in casa. Le galline scorrazzano, i piccoli diavoli si tuffano nel fiume dietro il villaggio. La polvere si alza dietro i calcagni che si tuffano, il bufalo mugghia ma sembra contento, pare sapere che tra poco lo strofineranno per bene, lo useranno come trampolino di lancio. Lui sopporta, è un baby sitter paziente. Le madri più in là fanno il bucato e si mandano l’un l’altra suoni gutturali e secchi, spezzati da accenti sonori.
Io e Andrea ci guardiamo, via le magliette e saltiamo anche noi. L’acqua è fresca, il cielo trasparente di azzurro, nell’aria leggera, profumata di sole, cirri spumosi sorvolano le nostre teste bagnate.
“Non lo dimenticherò questo momento” dice Andrea. E di me, ti dimenticherai? Vorrei dirgli. Lui è impenetrabile come la giungla. Mi guarda e le pupille luccicano come di febbre. Vorrebbe dire qualcosa anche lui, lo sento, lo vedo ma desiste. Anche lui. Seduti restiamo ad asciugarci al sole, guardando fisso il mondo di qua.
“Quando sei venuta in Cambogia scappavi da qualcosa?” si sdraia sull’erba e io lo seguo, allarga le braccia e una mano finisce lì dove voleva atterrare: sulla mia pancia nuda. Poggio la mia sulla sua. Restiamo in silenzio per un po’.
“Non lo so. Volevo vedere cosa si prova a vivere così. E tu?”
“No. Ma adesso vorrei. Vorrei non dover tornare” si volta verso me e aspetta, ma io rimango con gli occhi chiusi sull’infinito celeste che so fermo su di me.
Ci sono barriere che è meglio non attraversare anche quando si aprono per lo spazio che gli si concede. Il muro di Gerusalemme, il confine del Vietnam che attraverseremo a breve, l’orizzonte del mare, anche quelli sono limiti ma sono attraversabili, dietro ci sono popoli e vite che si mischiano a quotidiani robotici. Poi ci sono altri sbarramenti, che non sono di mattone e non si lasciano passare: sono invisibili e interiori e non li puoi toccare. Andrea sospira e s’alza, se ne va.
“Che fai non vieni?” dice.
Alonati contro la palla rossa del sole che cade, vengono le figure dell’autista e dell’aiuto che ha trovato, ancora lontani, miniature di uomini infuocati nella cornice del verde che si fa carminio. Io e Andrea aspettiamo che finiscano le riparazioni, le schiene contro i banani. Diciamo: “Peccato”, “Potevamo restare”, “Già” e ci guardiamo. Un mondo intero ci passa tra le iridi: comunicazione invisibile. Una sospensione di cose in atto e in potenza.
Quando siamo a bordo diciamo convenzionali ciao con le mani ai bambini e ai cani che, fedeli, corrono dietro. Con il sole scende anche una malinconia della sera, qualcosa che ha a che fare con le occasioni sfuggite.
Rimetto i Love nelle orecchie.

Silvia Penso