racconti

La regina dell’acqua

Era per quel suo modo di trattenere il fiato, occhi socchiusi, labbra serrate a formare una linea piatta, il respiro che moriva nella cassa toracica e lo sguardo perso dentro un finestrino di orizzonti color asfalto e muri scrostati. La pelle del viso, delle guance gonfie di ossigeno, perdeva a poco a poco l’usuale pallore e virava in un rosa perlato seguito da un rosso scarlatto. Stringeva le dita della mia mano e alla fine sbuffava come se le avessero tolto un tappo dalla bocca. Si voltava e sorrideva. Era per quello che Marilù rimaneva sott’acqua più di tutti noi: si allenava ogni giorno trattenendo il respiro sul pulmino che riportava a casa noi ragazzini del quartiere, tanto che a scuola era conosciuta da tutti come la regina dell’acqua.

Abitava in un monolite di cemento armato chiamato palazzo Andromeda, distante una lingua di strada sterrata e un’aiuola sfiorita da Sirio, l’edificio gemello dove i miei genitori avevano traslocato il giorno prima che iniziassi le elementari. L’alloggio di Marilù era al piano terra, il nostro al decimo, ma se mi sporgevo dal balconcino del bagno riconoscevo la finestra della sua cameretta con le tende di Minnie. La mattina i nostri passi si sincronizzavano in un’unica andatura fino alla fermata, poi, seduti uno accanto all’altra sul bus giallo limone della scuola, le nostre spalle si sfioravano ad ogni curva o buca della strada e in classe i nostri banchi diventavano i poli opposti di due calamite.

Marilù festeggiava i suoi compleanni nel giardino quadrato che abbelliva il centro del cortile condominiale vestito di autobloccanti. C’erano sempre patatine insipide al formaggio, bibite sgasate e una torta al cioccolato decorata con gli Smarties. L’ultima volta abbiamo giocato a nascondino. Marilù e io siamo corsi verso uno dei tavoli da picnic prefabbricati sparsi a spaglio, rannicchiati tra l’unica gamba e la panca intrisa di graffiti, sotto le suole delle nostre scarpe i fili d’erba condividevano lo spazio con filtri di sigaretta e cicche masticate.

Marilù mi ha fatto segno con il dito indice poggiato sulla bocca di stare in silenzio, poi si è avvicinata al mio orecchio e ha sussurrato di chiudere gli occhi. Ubbidiente, un attimo dopo ho sentito che incollava le sue labbra alle mie. Erano umidicce e profumavano di caramelle gommose alla fragola. Ho smesso di respirare, immobile, braccia lungo i fianchi, e quando ho riaperto gli occhi, Marilù mi guardava sorridente.
«Nicola Speziale, ora noi due abbiamo un segreto!».
Ha detto così prima di alzarsi e sgattaiolare via.

Parlava poco, come una di quelle radioline con i fili sbrecciati che funzionano soltanto se il cavo è in una posizione precisa, ma con lei non mi annoiavo mai, era una formica sempre in cerca di qualcosa. Ricordo che una mattina di primavera, durante un corso in piscina organizzato dalla scuola, è uscita dalla vasca ed è sparita. Ho alzato lo sguardo e attraverso gli occhialini da nuoto ho visto Marilù sul trampolino più alto, le dita dei piedi avvinghiate a mordere il bordo esterno della piattaforma. Era lassù, da sola. La maestra ha emesso un urletto acuto, stridulo. Marilù sembrava fissarmi, così le ho fatto un cenno con la testa imprigionata in una cuffia verde muschio e lei di rimando si è lasciata cadere, dritta come la strada che porta al mare. L’acqua, un decimo di secondo prima che Marilù ne sfiorasse la superficie appena increspata, si è aperta accogliendo il corpo ossuto di bimba, senza uno spruzzo, in un abbraccio silenzioso. Pareva non volesse più tornare a galla, poi sono riemersi i capelli corvini e infine il volto. Rideva.
Sapeva cavarsela in tutto, Marilù, nove anni di cocciuta risolutezza, risaliva sempre, riaffiorava dal buio in ogni occasione, per questo non voglio credere ai quotidiani e alla televisione.

Ormai è trascorsa una settimana da quando ho visto la sua foto stampata sul giornale e da quel giorno il banco accanto al mio è vuoto. La mamma non voleva che sapessi troppo su quello che le era capitato , ma sono riuscito a leggere che avevano ritrovato Marilù in un canale accanto al depuratore, a testa in giù, e che avevano arrestato il suo patrigno. Al funerale piangevano tutti. Io no. Sapevo che lei non era distesa in quella bara bianca, che lei era ancora immersa nel canale, occhi socchiusi, labbra serrate a formare una linea piatta, il respiro racchiuso nella cassa toracica sgonfia e lo sguardo a fissare il fondo di pietre e alghe. Alla fine avrebbe sbuffato come se fosse stato tolto un tappo dalla sua bocca, bollicine tutt’intorno al viso contornato da capelli lisci e sottili. Avrebbe aspettato un secondo, ancora un attimo prima di riemergere, poi si sarebbe voltata e mi avrebbe sorriso.
Lei si allena tutti i giorni a trattenere il respiro, è la più brava di tutti. Marilù, d’altronde, è la regina dell’acqua.

Davide Ceraso

In copertina Marialinda Toriello