
Eppure una bomba era esplosa
Il teatro era proprio lì: a cinque minuti dal caffè in cui mi ero fermato. Restai immobile a contemplare la facciata rovinata. Ai miei piedi c’era parte dell’insegna, ne raccattai un pezzo, soffiai via la polvere e poi lo rigettai di nuovo a terra.
Lavoravo in quel posto fin da quando ero piccolo. Lì, avevo imparato ad amare le più grandi opere e ad appassionarmi a quel mondo.
Entrai nell’atrio, piovevano ancora calcinacci, dovevo fare attenzione. Il pavimento era un disastro: c’erano macerie ovunque. Per un attimo vidi anche corpi umani agonizzanti stramazzati a terra. Fortunatamente era solo la mia immaginazione.
Guardai l’orologio. Erano le otto di mattina. Pensai che il giorno prima, a quella stessa ora, tutto era ancora integro.
La notizia dell’esplosione mi giunse mentre stavo cenando. Il boato fece vibrare il piatto. Il vino fuoriuscì dal bicchiere e i vetri delle finestre iniziarono a traballare.
Fu un colpo secco: BOOOM!
Subito mi affacciai: vidi fumo e fuoco in lontananza. Partirono le sirene in tutta la città: la zona era quella del museo. Era lì che si erigeva il Teatro Nuovo. Che tipo di attacco era? Ormai la mia mente era un turbinio di domande e cercava di far ordine, trovare risposte a quella perversa quotidianità che prendeva sempre più campo.
Passò la notte.
L’indomani aspettai David, il factotum. Nel mentre, ispezionai la biglietteria e il retro.
«Direttore!», mi chiamò entrando a corsa.
«È tutto finito», dissi in piedi di fronte alla sua faccia terrorizzata.
Ci abbracciammo. David mi dette una pacca sulla spalla.
«Saliamo», disse.
Le scale erano coperte da detriti e frammenti di qualsiasi genere. Inciampai su una corda.
Con un balzo mi affacciai dal palchetto. David mi seguì. Ci ritrovammo nella barcaccia, proprio al lato del palcoscenico. Quei posti erano, da sempre, i miei preferiti. Da lì si poteva davvero far parte della scena.
Misi entrambe le mani sulla balaustra e fissai il palcoscenico. David, ritto in piedi, guardava la platea. Capii subito il suo sguardo: la sua mente andava a tre giorni prima, agli applausi che scrosciavano per l’ultima opera andata in scena. Di colpo, li sentii risuonare anche nella mia testa.
«Continuiamo», questa volta fui io ad incoraggiare David.
Le macchie scure della vecchia moquette incollata alle scale avevano preso il colore biancastro del muro venuto giù dalle pareti. Ad ogni piano ci fermavamo e vedevamo delirio: non quello degli spettatori, questa volta era diverso: era la conseguenza dell’assurdità di una guerra.
«Quei bastardi hanno attentato alla nostra passione», dissi fissando David negli occhi.
«Già». David prese in mano una lampada caduta a terra. «Resisteremo», sentenziò fiducioso rimettendo in piedi la lampada che ingenuamente provò ad accendere.
Proseguimmo per le scale. Mi accorsi che David, via via, segnava qualcosa su un quadernetto.
«Cosa fai?», chiesi.
Mi accesi una sigaretta e gliene offrii una. La mise in bocca aspettando che gli passassi l’accendino.
«Prendo appunti. Tra due mesi c’è l’evento. Dobbiamo pur ripartire da qualche parte».
«Ma non ce la faremo mai», risposi sconfortato.
Entrammo in un altro palco, più in alto. Ci mettemmo a sedere fumando in silenzio. Dall’altro lato, di fronte a noi, improvvisamente un certosino. Stava seduto sul parapetto e ci fissava.
«Tua moglie sta bene?», domandai a David.
«Un po’ meglio. Negli ultimi giorni è andata migliorando. Grazie per aver chiesto. E lei, invece? È sempre convinto di non volersi sposare?»
«Me la cavo bene così», replicai alzandomi in piedi.
Salimmo le scale. David continuava a fermarsi controllando tutto. Era incredibile il suo non perdersi d’animo. Sarei sceso per andarmi a rifugiare dietro un bicchiere di Arak, ma lui mi dava la forza per continuare quella sorta di ispezione all’inferno. Dovevo rimanere lucido.
«Il secondo e il terzo piano non sono poi così messi male. Domani potrei vedermi con il falegname per cominciare a rifare la struttura delle tende e recuperare i pezzi integri», mi disse cercando un consenso.
«E se ci bombardassero di nuovo?», chiesi scoraggiato.
«Non lo faranno», replicò di getto.
«Vorrei pensarla come te.»
«Direttore, ci hanno voluto intimorire ma il Teatro Nuovo continuerà ad esistere», rispose convinto.
«Si, ma se dovessero ancora insistere? Se ci fossimo noi e altre anime innocenti mentre ci attaccano?»
«Dobbiamo andare avanti, Raphael. Non possiamo arrenderci», fece una pausa. «Il dottore sta curando mia moglie perché possa ancora sorridere ai nostri figli».
Lo guardai dritto in quei suoi occhi neri. No, aveva ragione, non potevo arrendermi.
«Domani chiama il falegname».
Ero stanco, ma percorremmo in lungo e in largo tutto l’edificio: quattro piani di macerie e devastazione.
David non si fermava un attimo: appuntava qualsiasi cosa da mettere a posto. Arrivava sempre dopo di me. Ogni tanto, voltandomi, lo vedevo piegato a controllare un’intercapedine o roba del genere.
Mi affacciai alla ringhiera delle scale e guardai in basso. L’immagine che vidi era una voragine: una spirale di detriti che proiettava verso un buco nero.
Quella scena aveva le sembianze dell’inferno dantesco. Distruzione e caos ovunque non facevano che rimandarmi ai dannati. Alle fiamme ardenti. Improvvisamente il Teatro Nuovo si era trasformato in uno dei regni dell’oltretomba: fu un attimo.
Smarrito, guardai di fianco a me. David se ne stava lì con il suo taccuino in mano: mi chiesi se in realtà fosse Virgilio o se fosse solo un sogno. Eppure una bomba era esplosa, continuai a pensare.
Guardai di nuovo nella tromba della scale, vuota, desolata, senza un peccatore, nemmeno coloro che ci avevano fatto questo.
«La situazione non è drammatica come sembra. Poteva sicuramente andar peggio». L’analisi di David, mi riportò alla realtà. Non eravamo all’inferno, anche se così poteva sembrare. Era solo un mare in tempesta che di lì a poco si sarebbe acquietato. Le luci sarebbero state di nuovo accese e i corridoi avrebbero echeggiato ancora il brusio degli spettatori. Così prometteva David e così doveva essere.
Era passata una settimana da quell’esplosione, da una parte della strada vedevo il museo distrutto, dall’altra l’insegna del teatro era di nuovo al suo posto. Un gruppetto di operai entravano e uscivano, ognuno armato di cazzuola e spatola. Qualcuno aveva con sé un secchio zeppo di sabbia.
Gerusalemme era in piena attività.
Passeggiavo tra le vie assolate quando pensai di fare un salto all’appartamento di David. Lui non c’era, si stava dando da fare con il calcestruzzo. C’era la sua famiglia, però.
Shira, la moglie, mi vide dalla piccola finestra del soggiorno. Feci un cenno con la mano come per salutare.
Poco dopo, tornai a teatro. Nel retro della biglietteria c’era una stanzina che, di solito, utilizzavo come spogliatoio: mi misi una tuta da muratore.
Raggiunsi David. In quel momento era in cima alla scala che sistemava il soffitto dell’ingresso.
«Ci sono anch’io», dissi.
«Direttore!», esclamò stupito.
«Due mani in più possono aiutare». David scese dalla scala, mi fissò e mi abbracciò. Il certosino, che ormai da giorni girava all’interno del teatro, si strusciò ai nostri piedi.
Lavorammo tutti i giorni senza fermarci. Ero diventato a tutti gli effetti un manovale.
Aiutavo chiunque: David, il falegname e gli altri ragazzi. Ogni artigiano poteva contare su di me. Non ero certo un esperto, tantomeno un tuttofare, ma in quei giorni lo spirito di quegli uomini sembrava aver rinnovato il mio.
Per me fu come una rinascita. Passavano i giorni e l’opera di rimessa in piedi procedeva a tutto spiano.
Arrivammo a ventiquattro ore dallo spettacolo. Gerusalemme non aveva più subìto attacchi.
«Brindiamo a noi!», i calici tintinnarono, gli sguardi s’intesero e così svanì l’inquietudine del passato.
Quando la sera della riapertura premetti l’interruttore delle luci, mi si aprì il cuore. Tutto era come prima. Dell’esplosione non c’era più traccia. Ogni tenda era al suo posto, la moquette verde adagiata sulle scale era pulita. Sembrava un miracolo. Fuori, le persone erano in fila, ansiose di entrare nella spensieratezza di una commedia. David si era vestito di tutto punto per l’occasione. Lo raggiunsi.
«Ci siamo!», dissi emozionato.
«Si, direttore», replicò sorridendo.
«Stasera sarai in barcaccia con me», esitai un poco, «e loro».
In quell’istante comparvero Shira e i bambini.
David, sorpreso, prese subito in braccio i figli.
Poi disse: «Ma voi che ci fate qui?».
«Raphael ci ha invitati ed eccoci qua», rispose la moglie.
Le luci si abbassarono, il brusio della platea si fermò di colpo. La grande tenda rossa si aprì e l’occhio di bue s’illuminò. Dal fondo una voce esordì:
Nel mezzo del cammin di nostra vita.
Daniele Pratesi
In copertina Nicola Bertellotti

