
NAKED. Una storia violenta
#1
Mi chiamo Matilde, per via di un vecchio fumetto femminista che mia madre adorava, e domani sarà il mio compleanno. Sempre se ci arrivo a domani visto la situazione in cui mi trovo: nuda di fronte ad otto stronzi armati fino a i denti. Non che mi capita spesso – è la mia prima volta – di trovarmi di fronte a un plotone di esecuzione, ma la situazione lo richiedeva. La situazione si chiama famiglia.
Sono l’ultima di tre sorelle, nate a Lampedusa, da genitori misti. Papà di Tunisi, arrivato con una di quelle fantomatiche barche che si vedono la sera al telegiornale mentre frustrate casalinghe cornute sfornano cavolfiori gratinati e mariti grassi e fedifraghi stappano una bottiglia impolverata di Chianti.
La famiglia di mamma, gestiva un piccolo camping sul Belvedere dei Conigli, che negli anni novanta, al tempo dei primi sbarchi, si era distinto per l’eccessiva generosità di mio nonno Manfredi, che assumeva chi aveva bisogno tanto che, in poco tempo il numero dei profughi, era più alto di quello degli ospiti.
Magari non sapeva come pagarli, ma non negava a nessuno, un piatto caldo ed un bicchiere di vino. Così facendo si era anche attirato le ire del commissario Siciliani, un vecchio fascista schifato dalla promiscuità culturale di mio nonno.
Poco male, perché sarebbe morto qualche anno dopo di cancro. Ed ora, a vigilare sulla sicurezza dell’isola c’erano i suoi otto nipoti, di cui non ricordo mai i nomi, se non che la madre li aveva chiamati tutti con la stessa iniziale: la P.
Sull’isola siamo pochi e ci conosciamo tutti per nome, loro invece li chiamiamo per numero: Porco Uno, Porco Tre, cose così.
Fin dalle scuole medie, io ero figlia di negri e loro, figli di guardie, il che non prometteva, già allora, niente di buono. Poi tutto è cambiato. In peggio. I magnifici otto, avevano trovato il modo di sfogare, in maniera legale, la rabbia e l’odio accumulato e trasmesso di generazione in generazione: erano diventati carabinieri. Gli unici di tutta l’isola.
#2
Una grande storia non ha di certo paura di sacrificare il suo personaggio principale. Non si va da nessuna parte con i vissero felici e contenti. Non ci sfami nemmeno una famiglia.
Uno ci si impegna a costruire una vita da videogioco, veloce, senza rischi, senza rimetterci troppi soldi, ma dopo cosa c’è? Che cosa lascio dopo di me? Non sono mai cresciuta abbastanza per rispondermi, perché tutto già era scritto e la trama era una storia troppo violenta.
Ed eccomi qui a seppellire mia sorella, la prima a nascere, la prima a morire. Ci avevano fermato come al solito, sulla curva che porta alla vecchia spiaggia di roccia, dove ci nascondevamo per fumare. Linda, sfrontata come al solito, aveva cominciato a prenderli per il culo. Solo che quegli enormi idioti P non avevano nessuna voglia quel giorno, di essere sfottuti.
Quando la ammanettarono cercai di mettermi in mezzo senza però ottenere grossi risultati. Ad ogni modo non dovevo lasciare che la portassero via. In quel momento non immaginavo certo che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei vista. Viva. Linda portata via. Noi altre perquisite per tutto il pomeriggio.
Probabilmente lo avevano già covato dentro, da sempre. Prendersela con noi era pure troppo facile, viscidi pezzi di uomo, che il mare grosso vi colga mentre pescate al largo o mentre dormite beati tra gli scogli, arroganti, porci nati schiavi e vissuti come vermi in una terra libera.
Povera Linda onda anomala, medusa sgargiante e senza veleno, non dimenticherò i tuoi giochi inventati, con cui sono diventata, una donna.
Povera Linda mosca cieca, mischia di nuovo le tue carte, allinea le tue ossa all’orizzonte, mastica muschio di Marte, angelo che mi guardi dall’alto, quanto mi manchi sorella mia, il tuo sorriso spezza ogni catena.
Il lutto è una ragnatela che non posso vendere al miglior offerente, perché il ragno non si vede ma c’è, e probabilmente mi sta guardando, sta osservando le mie mosse, mi sta osservando e aspetta. Aspetta il suo momento, le prevede. Il mio punto di debolezza, che tanto arriva, prima o poi. Mi sorprenderà, infame, e mi colpirà. Ed in un attimo siamo rimaste in due. Contro otto.
Otto piccoli porci che non moriranno. Loro no. Noi si, perché non abbiamo niente, non c’è rimasto niente. Se non pochi metri di spiaggia ed i cavalloni di acqua salata che ci portano indietro, a quando eravamo felici, a quando eravamo tutti vivi, uniti, solidi di cemento armato, di stucco colorato e profumato, più forti del vento che disegna i volti sulle rocce, i sentieri tra i pini disperati, le querce rarefatte, il destino comune, le pigne nude di pinoli, i pezzi di vetro che riflettono le onde rarefatte e le rotte dimenticate che confondono i delfini e le orche.
E solo dopo la marcia funebre, che ci scorta al piccolo cimitero sulla collina dei ciliegi, fra le tane dei conigli e le notti che non portano consiglio, arriva il silenzio. Dentro.
Due gambe o una sola. Un salto su di un piede, poi suona una campana. Mia sorella cadavere, mai risorta, perché non è di questo mondo, non è scappata e quei maiali, un numero dopo l’altro l’hanno scannata. Otto volte. Ma ecco la mia preghiera, la mia frontiera, la mia vendetta: un piede dopo l’altro li calpesterò tutti e con tutto l’odio che mi è rimasto in corpo divorerò un maiale alla volta.
#3
Ed eccomi qui, stretta in una tela di ragno, con gli occhi aperti nel fango, dove riesco a respirare, persino a nuotare. A non annegare, ma la storia non è dalla mia parte, mi gira le spalle, mi stringe. Mi sembra di avere una morsa alla carotidee ogni cosa attorno a me muore, tranne il sole che non si può fermare, che non si può arrestare, ma è tutto lì, stupida palla di fuoco.
Una sola cosa pensavo: mia sorella uccisa da quegli infami.
Perché il potere ne esce sempre indenne e le sue malefatte restano spesso senza un colpevole?
E c’è chi ne paga le conseguenze, chi non sa se andare o restare, quali sono le cose giuste da fare, chi non sa se dire la verità o mentire.
Il clima non era certo dei migliori. Alla spiaggia dei conigli c’era un via vai di gente che voleva sovvertire, che cercava una vendetta. Noi eravamo tanti. Loro otto. Ma noi non eravamo dei violenti, ma poi noi chi? Che cosa siamo noi? Che cosa sono io?
Non so neanche come è morta mia sorella. È arrivata giusto una telefonata, da un numero sconosciuto a cui nessuno voleva rispondere. A volte il sesto senso.
Driiin driiin driiin.
Telefono.
Chi risponde?
Mamma.
E poi grida, cadendo svenuta sulla sua ginocchia deboli. Papà corre verso di lei. Le stacca la cornetta dalle mani. Pronto? Guardi è il commissariato. C’è stato un incidente. Un incidente, che parola strana. Incide la carne come un dente, masticando pezzi di uomo.
Signore mi scusi, ma deve venire subito.
E a fare che?
Padre senza destino, le sue colpe lo precedono. La sua vergogna mi assale, reagisci ti prego. Guarda oltre queste mani insanguinate, le vie della tua terra sono concimate, vitreo l’orizzonte mangerà il nostro alibi.
Mio padre non ha parlato per due mesi. Le parole gli erano scivolate via diventando immagini, granelli di sale fra le onde e le isole di fronte. Non sapevo cosa fare. Pregare? Non mi avevano cresciuto così. Vendicarmi? Non mi avevano cresciuto neanche così.
E il buon Dio in questi casi è latitante, si defila tra le fronde lasciandosi dietro sentieri di spine.
#4
Io da grande volevo fare l’attrice. Stavo le ore incollata alla tv a ripetere le scene d’amore. A ballare con i miei personaggi preferiti. A mandare baci finti alle nuvole, con gli occhi pieni di futuro ed un boccone indigesto.
La vita però è un’altra cosa. Le ore passano tutte uguali e diventano giorni. I giorni settimane di lacrime, poi mesi di buio, ed il buio ti avvolge.
Lampedusa brillante di luna crescente, il tuo giorno è arrivato. Ed il mio con te.
Convinta che non si può rimanere in silenzio, disegno la mia vendetta. Ci armiamo di coraggio, e siamo tutti in fila, tutti allineati contro qualcosa che non sappiamo combattere, perché non abbiamo le armi giuste. Mazzafionde contro mitragliette. Cerbottane contro lanciarazzi.
Questa non è poesia. No. Non è poesia. Perché quegli otto coglioni erano tutti vivi e vegeti, e pure armati fino ai denti. A volte la poesia ti aiuta, ma non oggi, non qui, tra queste strade desolate, strapiombi artificiali di belvedere addolorati.
Stavano lì, dritti davanti a noi, con l’artiglieria pesante e la loro stupidità. Così pensai che se qualcuno doveva fare qualcosa, ero sicuramente io. Se qualcuno doveva rimetterci, ero sicuramente io. E mi spogliai nuda.
In faccia il sole di mezzanotte, le mutande gettate in una pozzanghera di acqua piovana, presi in mano il mio destino, e cominciai a ballare ad occhi chiusi.
La notte poi inghiottì i miei passi.
Stefano Tarquini
Copertina Domitilla Marzuoli

