racconti

Il grembo del suono. Storia di un pianoforte

Un rumore sordo e profondo scuote le pareti dell’edificio sopra la mia testa. Anche in questo seminterrato polveroso e solitario, arrivano le pericolose vibrazioni dei primi colpi.
La demolizione è iniziata.
Dopo lunghi anni trascorsi al freddo e al buio mi piacerebbe proprio vedere un’ultima volta il bagliore del sole, prima che le macerie mi seppelliscano.
Probabilmente la mia è una richiesta eccessiva e quindi non mi resta che cullarmi nel ricordo del mio ultimo giorno ai piani superiori. 
Era un autunno dalle temperature particolarmente gradevoli e la natura aveva deciso di sfoggiare i suoi colori più pittoreschi. Fuori dalla finestra il sole riluceva sulle foglie rosse e gialle che svolazzavano nell’azzurro del cielo.
Fu l’ultimo giorno in cui vidi Enrique. Da tempo le sue visite erano diventate più rare, ma quella mattina dal suo tocco capii che c’era qualcosa di diverso. Le dita tremavano leggermente: in quel gesto, che non aveva niente a che vedere con la vecchiaia, c’era un addio infinitamente malinconico.
Non tornò più a trovarmi, e in men che non si dica mi scaricarono nel seminterrato, insieme ad altri oggetti ammuffiti. Persi qualsiasi speranza di essere trasferito altrove. Poi non molto tempo fa la conferma: sentii che qualcuno, dai piani superiori, gridava a gran voce che l’edificio doveva essere demolito. 
Ed eccomi al capolinea. Ma non mi rammarico di dovermene andare.
L’ultimo crollo mi solleverà dagli impegni della vita: tanto lunga ed intensa da non ricordare neanche quando sia iniziata.
Non conosco la mia età o chi mi abbia creato, i miei più antichi ricordi risalgono alla prima accordatura. Lavoravano su di me in gruppo, due uomini e una donna, avevano le mani gentili e sapienti, callose e robuste. Furono loro ad accompagnarmi verso il mio primo impiego, proteggendomi come dei fratelli maggiori.
Il negozio di strumenti dove mi consegnarono era accogliente, affollato da ragazzini vocianti, uno dei quali convinse i genitori a comprarmi. 
Fui collocato in una piccola stanza dal soffitto basso e le pareti troppo strette, tanto che la mia coda quasi sfiorava la parete. Ogni giorno temevo che un urto involontario avrebbe sporcato di intonaco la mia perfetta laccatura nera. Tuttavia la domestica mi spolverava regolarmente e prestava attenzione alla mia posizione. Grazie a lei ero sempre a lucido: unico aspetto positivo della mia permanenza in quella casa.
Quel luogo era completamente inadatto a valorizzare le mie capacità armoniche, e il giovane pianista che mi suonava si scoprì totalmente disinteressato alla musica e, in men che non si dica fui presto restituito al negozio. Mi dissi che non poteva andare peggio di così.
E invece mi sbagliai.
Seguirono anni scanditi da una ciclica monotonia che sembrava non voler mutare: i clienti entravano, mi solleticavano impacciati, rimanevano affascinati dal mio suono e mi regalavano ai loro figli sfaticati. Quando capivano che con me non potevano avere alcun tipo di relazione, mi lasciavano andare e mi riportavano là dove mi avevano preso. Una volta accordato, ero nuovamente in vendita pronto per un altro fanciullo.
Che spreco.
Poi la svolta arrivò in una tarda serata, poco prima dell’orario di chiusura: finalmente sui miei tasti si posarono dita sapienti. Le corde vibrarono come mai prima di allora, mostrando ai pochi presenti in sala quello di cui ero davvero capace. Guidato dal giovane uomo seduto sul panchetto intonai una meravigliosa ballata di Chopin.
Fui trasferito in una sfarzosa reggia: i genitori del giovane uomo che mi aveva acquistato, erano duchi. Ogni mattina, dalle nove alle undici, io e Archie, il giovanotto al quale dovevo tutta la mia gratitudine, insegnavamo a suonare alla piccola della famiglia. Ore di scale e arpeggi, brani semplificati ed esercizi noiosissimi e ripetitivi. La ragazzina, per altro, non sembrava molto entusiasta di imparare a suonare il pianoforte, preferiva quel pallone gonfiato del violoncello.
Sopportavo però volentieri quella singola, noiosa ora giornaliera pur di sentire Archie suonarmi. Il resto del tempo che mi separava dalla lezione successiva lo vivevo in trepidante attesa.
Che giorni gloriosi! Non era solo un esperto di Chopin, ma anche di Beethoven, Liszt e Debussy. Le ore spese a studiare i brani con cui si esibiva a teatro o durante le serate di gala che organizzavano i duchi volavano via sempre troppo rapidamente.
Ma le cose belle, ahimè, sono destinate a finire.
Le serate di ballo diminuirono, e Archie non ebbe mai figli. I duchi invecchiarono e quando erano già morti e sepolti si scoprì che tutte le loro ricchezze erano state dilapidate. Non ho mai capito chi fosse il responsabile e d’altra parte non me ne sono mai interessato, questi affari da esseri umani mi annoiano a morte.

Il mio dolce suonatore morì senza riuscire a vendere la reggia, e io lì rimasi. La stessa sala di sempre, da splendida, pulita e sfarzosa, si trasformò in un luogo sporco, triste e spento.
Il mio scintillante avorio era diventato opaco come la nebbia che offusca il sole, e le mie parti interne venivano rosicchiate da tarme e topolini. Gli scoiattoli avevano scelto la mia coda come deposito per le loro provviste, e di tanto in tanto ricevevo la visita di orde di ragazzini sghignazzanti in cerca di avventurose scorribande che non mi degnavo neanche di uno sguardo distratto. Pensavo che la mia vita sarebbe finita in un assordante silenzio rotto solo dal cinguettare degli uccellini, ma ancora una volta le mie aspettative furono contraddette.
Conobbi il mio salvatore quando versavo nelle peggiori condizioni. Il martelletto del do diesis centrale non esisteva più, e nessuno, giuro, nessuno dei miei cari bemolli risuonava alla frequenza giusta. Il si sovracuto aveva assunto una sfumatura identica a quella della risata stridula di una strega, me ne diede notizia la zampa di un gatto che passava di lì per caso. A pensarci ancora rabbrividisco.
Quel giorno le foglie secche, cavalcando le ali del vento, erano entrate dalla finestra rotta e avevano ricoperto il pavimento. Fui destato dallo scricchiolio del parquet. Non erano i soliti bambini, erano passi d’uomo.
Strusciò un dito sulla mia coda, mi studiò, mi contemplò. Quando finalmente premette i tasti non ebbi il tempo di inorridire per il suono che emettevo, perché troppo eccitato dal primo tocco umano dopo anni di solitudine.
L’uomo sbuffò: «Qui c’è un gran lavoro da fare».
Così iniziò il periodo più felice della mia vita. Non ero il pianoforte di un uomo follemente ricco, ero il pianoforte di un uomo follemente innamorato della musica.
Enrique veniva quasi ogni giorno, e con calma e dedizione mi rimise a nuovo. Per prima cosa riparò la finestra per tenere le intemperie lontane da me, e preparò delle trappole per fare altrettanto con i roditori, poi si dedicò alla pulizia ed infine al vero e proprio restauro, interno ed esterno.
Quando fui nuovamente pronto ad emettere suoni melodiosi fui colto dalla più grande delle sorprese: Enrique mi suonava come un vero maestro, e insieme cantava. Le nostre voci insieme erano perfette: l’armonia più attraente che avessi mai udito. Mi suonava sperimentando, improvvisando; insieme abbiamo composto moltissimi brani di qualsiasi genere.
Per la prima e unica volta desiderai la parola, per poter chiedere a Enrique di uscire da quel nascondiglio ed andare ad intrattenere il mondo intero.
Poco tempo dopo, quasi come se avesse percepito il mio desiderio, mi portò nel mondo esterno: iniziammo a viaggiare su una nave da crociera. In quelle magiche serate alternavamo musica classica, blues e i nostri componimenti. Dieci anni dopo tornammo sulla terraferma e per un periodo vissi in teatro, dove insieme ad Enrique accompagnavamo l’orchestra nelle rappresentazioni delle opere liriche.
Fino a che Enrique non decise di aprire un locale jazz, la sua più grande passione. Quel posto odorava di bourbon ed era sempre gremito di gente amante della buona musica. Vissi anni in uno stato di assoluta felicità, finché voci sul mio conto e su Enrique cominciarono a circolare: per gli invidiosi e i maligni ero diventato troppo attempato per essere restaurato ancora, ed Enrique troppo vecchio per poter intrattenere ospiti per intere serate.
Venne acquistato un pianoforte giovane e bello, come ero stato io tanti, tanti anni prima, e fui trasferito in un negozio di antiquariato dove mi consideravano, sotto forte insistenza di Enrique, il pezzo forte della collezione.
Il mio compagno veniva a salutarmi di tanto in tanto, soprattutto per accertarsi che fossi sempre trattato da re, fino a quell’ultima carezza, quando ho capito che non sarebbe più tornato.
Forse era malato, forse si stava trasferendo di nuovo. Non lo saprò mai.
Malinconico guardavo fuori dalla finestra conscio della mia sorte: non sarei mai più stato suonato. I colori dell’autunno furono seguiti dal candore dell’inverno, dai fiori della primavera, e poi dalle piogge estive. Ho provato tristezza quando mi hanno trasferito nel seminterrato insieme agli strumenti rotti, pur consapevole della mia irreparabile condizione.
Oggi tutto il legno che mi compone è ormai marcio e i roditori sono tornati a banchettare i miei martelletti. Sono felice che oggi questo edificio venga demolito, ed io con lui. Me ne andrò intorpidito, con lo stesso silenzio con cui sono stato creato, incapace di usare la mia voce, ma consapevole che se mai esiste un paradiso per noi grandi amanti della musica, allora là incontrerò di nuovo il mio compagno Enrique.     

Elena Fiorentini

Foto di copertina di Nicola Bertellotti