
ODORE DI RANCIDO SULL’ASFALTO FREDDO
Nessuno ti guarda veramente negl’occhi.
Lo sguardo basso, il passo accelera, una mano fruga nelle tasche e con un lancio bendato getta quello che ha trovato ai miei piedi. Grazie tante. Lo osservo allontanarsi nel suo completo di Valentino, arrogante e pomposo, mentre si strozza nella sua cravatta bluette.
La neve cade lentamente, senza fretta, quasi a voler rallentare lo scorrere del tempo. Il gelo mi sta rompendo le ossa, sto seduto in questo incrocio da almeno quattro ore. Il moccio al naso che mi impregna la giacca e mi conferisce un’aria ancora più disagiata. Meglio così.
Se stai seduto per molto tempo in mezzo alla gente, fissandola, riesci a capirla. Riesci ad inquadrarla in pochi attimi. Le madri con i passeggini che ti lasciano pochi euro nella speranza che i loro figli non saranno mai come te. Coppie che passeggiano estraniati nella loro eterna – finché dura – isola felice. Uomini d’affari con gli auricolari che sbraitano, non si sa bene contro chi, come psicolabili. L’unica cosa che li accomuna tutti è che nessuno ti guarda veramente negl’occhi.
Nessuno.
Raccolgo la mia postazione di lavoro: una scatola di cartone di una TV a LED 60 pollici e la scritta:
Non che li abbia veramente intendiamoci, ma i bambini fanno sempre colpo al cuore magnanimo della gente. E poi ho notato che ho più opportunità di guadagno se cambio slogan ogni cinque, sei ore.
Il mio è un lavoro a tempo pieno.
Svolgo un servizio pubblico importantissimo: faccio sentir in pace le persone con la loro coscienza.
Sono Amnesty International.
Sono Emergency.
Sono una onlus benefica che compiace il singolo pagante.
Cristiani che offrono quattrini per il bene del mondo invece di far qualcosa di concreto. Una volta per l’assoluzione dei peccati e l’entrata in paradiso bastava donare una modica somma al clero, adesso danno tutto a qualche cooperativa di beneficenza o ai mendicanti. Per qualche euro le persone si sentono bene, credendo di fare del bene. Si sentono eroi, moderni Robin Hood in un mondo di pezzenti e povera gente che muore pian piano di fame.
Tutto il sistema è starato.
Azioni benefiche che si limitano a firmare assegni e a svuotare le tasche in una cesta di vimini la domenica. Azione futile e denaro inutile: è il verde sporco di un popolo morto.
Prendo tutto ed inizio a camminare. Sono solo, mentre mi tiro avanti malfermo camminando tra la folla. Solo con i miei pensieri. Isolato dalla collettività. Non ricerco nulla. Non credo in nulla.
Solo.
Stare in mezzo a così tante persone mi rende terribilmente triste.
Lasciatemi in pace.
Lo stomaco inizia a brontolare. Mi intrufolo nel vicolo della strada. Fame. Frugo nei bidoni, vediamo cosa offre il menù stasera:
– Due cartoni di croste di pizza, contornate da un po’ di pomodorini che ricordano vagamente un feto di qualche strano animale abortito malamente;
– un mezzo Mars con il ripieno attaccato alla parete del bidone;
– un cartone di vino in brick mezzo finito.
Che generosità.
Poteva andarmi peggio.
Mangio tutto senza pensarci, non posso fare lo schizzinoso.
Freddo. Freddo. Freddo.
Strappo poster elettorali, autocelebrazioni fine a sé stesse che almeno a me saranno utili, dico infilandoli uno ad uno nella giacca.
Calpesto la neve allontanandomi e produco quel distintivo e armonioso scricchiolio. Un ricordo d’infanzia che mi fa sentire così dannatamente nostalgico e vicino a casa. Poi ricordo il suo viso. Cazzo quanto mi manca. La sua assenza è un peso così pesante da portare ogni giorno. Se ci ripenso, tutte le volte mi dico che l’unica cosa che ci teneva uniti non era l’amore che provavamo l’uno per l’altra ma l’odio comune per il mondo il intero. Un mondo imprevedibile, brutto, di una bellezza al massimo intermittente, che non dura per sempre: appassisce e se ne va, lasciandoti solo. Solo con te stesso, lo schifo e il dolore.
Mi tengo i cartoni per la pizza, non si sa mai potrei avere un’improvvisa ispirazione per una qualche nuova “frase ad effetto”. Cammino e cammino, lasciando impronte e segni che verranno presto cancellati da altri fiocchi di neve. Nulla sopravvive.
Apocalisse.
21/12/2012 – Mi sembra ieri, ma è un sogno ormai svanito.
Apocalisse e scrivo la data di domani solo per mettere un po’ di pepe al culo.
Portatevi gli occhiali da sole, i bermuda e gli infradito, farà piuttosto caldo. Strappo un pezzo della maglia e lo uso per appendere il cartone al collo.
Apocalisse. Apocalisse. Apocalisse.
Entro nel personaggio. Sono pronto. Scandaglio sguardi psicotici a casaccio per osservarne le reazioni. Occhi che escono dalle orbite, vene del collo gonfie come canne dell’acqua. Urlo e sbraito, accompagnando il tutto con una teatrale, ma efficace salivazione eccessiva che straborda dalla bocca per l’impeto.
Fisso.
M’avvicino alzando ancora la voce. È uno studio socialmente utile solo al mio personale sollazzo e alla mia sopravvivenza.
Capitalismo, come li hai ridotti.
Sordi e ciechi automi che lavorano e lavorano. Ammasso di macchine che vivono di un malfunzionamento virale chiamato società.
Alzo il viso verso il cielo. Il vento mi sfregia col suo pallido cristallino. Mi metto una mano davanti agli occhi, i guanti di lana neri mi fanno confondere la percezione visiva. Lo spazio è confuso. Guardo le nuvole grigie, guardo l’atmosfera di smog, guardo l’ignoto più profondo. Siamo solo un piccolo granello di sabbia trasportato dalle onde di un mare nero. Quando si fermerà?
Apocalisse/Redenzione/Paradiso/Inferno.
Stronzate. Stronzate. Stronzate. Stronzate.
Siamo solo piccoli Lemmings che credono nel loro assoluto pseudo libero arbitrio. Vermi governati dalle situazioni, che sperano, soffrono e gioiscono quel poco prima di cadere nel baratro. La morte fa paura, non è una novità. E allora dopo un po’ ti accorgi che è tutto un gioco economico di controllo ben congegnato. E allora dopo un po’ ti accorgi che il Paradiso è solo un’altra prigione, un’altra squallida promessa di Vita Eterna.
Fanculo.
Preferisco essere mangiato dai vermi ed essere il nuovo concime del mondo. Merda per merda. Tutte le religioni ti promettono una ricompensa se ti comporti in modo corretto e soffri il giusto. Salvatori che devono essere salvati e patiscono le pene dell’Inferno. Tu devi fare lo stesso.
Ripeto: fanculo.
Lasciatemi morire in pace.
Preferisco starmene qui, nel mio intimo teatrino nel grande dramma del mondo. Piccola comparsa in un globo di piccole comparse.
Qui.
Un dramma per critici insensibili e un pubblico senza cuore. Così alla fine l’odio è rimasto il solo sentimento vero e puro, l’unico incontaminato che non è stato stuprato dalla mediocrità generale delle false parole. Interessi travestiti d’amore, questo si vede in giro. L’odio è l’unica cosa che ancora vale qualcosa in questo mondo. Io non voglio essere un anticonformista, voglio seguire la massa. Voglio essere il figlio prediletto di questa società. Voglio essere un parassita. Voglio essere la piccola cellula tumorale nel seno del mondo. La piccola cellula che cresce, cresce e cresce nella ghiandola mammaria e che nutre e contamina tutto con il suo nero liquido marcescente. La piccola cellula sfamata e saziata da tutta la sofferenza umana. Sfamato e saziato da sguardi non dati, parole non dette, occhi neri sotto occhiali scuri, lividi opachi nascosti per bene col fondotinta, bugie, soprusi e sputi in faccia. Saziato e sfamato da tutto questo male. Un piccolo tumore da un quintale e mezzo.
Ho raccolto un bel po’ di soldi oggi. Posso ritenermi soddisfatto. La neve ha smesso di cadere e le luci della città iniziano ad accendersi. Piccole formichine che, finito il lavoro, tornano nel loro caldo nido accogliente, a guardare oppiacei programmi via etere.
Il tuo pensiero da marciapiede ha la stessa profondità di una pozzanghera.
L’intelligenza è data dalle dirette esperienze di vita e dai filamenti di stoffa del divano ormai peli incarniti nel fondoschiena. Del resto non li biasimo. Siamo solo padroni di noi stessi, alla fine forse nemmeno di quello ormai. Lego di carne, con pezzi di ricambio da vendere al miglior offerente del mercato nero, solo per racimolare qualche spicciolo pur di sopravvivere. Il bello è che purtroppo ormai le priorità del mondo benestante sono altre. Ti nutrono di sogni di celluloide e piscio di star. Una volta si facevano mutui per le case, ora per stili di vita da grande schermo. Case con piscina. Casa in riva al mare. Feste. SUV da cinque chilometri al litro. Cibo biologico. Puttane. Coca. E donazioni da pochi euro all’anno:
MIINTERESSANOIPROBLEMIDELTERZOMONDOESONOUNAPERSONASENSIBILE ONLUS.
Passo davanti così ad un negozio di elettrodomestici. Una grande multinazionale comandata da un simpatico e persuasivo leone. Osservo uno schermo: uomini in giacca e cravatta che decidono il nostro destino. Litigi e dispetti, l’uomo non cresce mai veramente.
La monarchia non è scomparsa, ha solamente cambiato nome.
È quindi libertà d’espressione o censura autoindotta? Nulla importa se non è economicamente quantificabile. La sodomia è nascosta dentro un costoso completo d’impressione, mentre servi svenuti litigano su chi di loro ha il padrone migliore. Spilla da balia per cardiopatici convinti d’esser impotenti. Se non credi, cedi. Alla fine è solo questo. Ed è così con tutte le puttanate che ti rifilano. Ingoi, ingoi, ingoi, tu piccolo bulimico masochista. Sei quello che mangi (quello che mangi è quello che sei), così alla fine non stupirti se ti senti di merda.
Poveri noi: non ci resta una lacrima da versare, un amore da vivere, un benché minimo desiderio di speranza. Ci hanno tolto tutto. Quello che ci resta è solo rabbia, rabbia e un bel po’ di prugne per concimare il mondo di stronzi come si deve. La vita fa già schifo così. Bisogna essere masochisti per accettare dogmi e leggi autoritarie di maiali con lo smoking che tirano avanti inculando il prossimo. I pornodivi almeno ti fanno venire e vengono pagati molto meno. Così, soldi alla mano, non fanno altro che ingozzarci fino a farci morire e guardarci mentre soffochiamo nella nostra stessa avidità.
Ossigeno verde, rantoli di chiusura, i loro occhi sbavati di rosso e il mio ghigno compiaciuto. Pixel mi accecano poi in un bagliore quasi d’illuminazione buddista. È un dolore lancinante che mi attraversa il petto. Una fitta allo sterno e al mio cuore marinato in sentimenti in aceto. Vedo palazzi in macerie. Vedo bombardamenti da subwoofer provenienti dal sottosuolo. Vedo balli forzati da una vecchia giostra sadica. Vedo volti straziati che assorbono il dolore in Kleenex da discount mentre cercano figure familiari nel caos. Guardo le immagini allo schermo, la vetrina che riflette l’indifferenza dei passanti alle mie spalle. Ecco: questa è l’immagine perfetta dell’umanità e della considerazione sociale nel nostro paese. Equini da traino con paraocchi avvitati direttamente nel cranio e lobotomizzati da chirurghi veterinari radiati dall’albo per negligenza. Odio. Frustrazione. Risentimento. Sveglia!
Siamo comandati da nostri dipendenti. Una travisata realizzazione del sogno comunista e del subordinato al potere. Le cose cambieranno è vero, con le buone o con le bombe, e al solito ci rimetteremo noi: i soliti poveri stronzi.
Distolgo lo sguardo. Gli zigomi sfregiati da lacrime salate e amare. Mi pulisco velocemente con la manica. Asciugo e trattengo la sofferenza, la reprimo dentro di me in una spugna di gemiti da conato. Il mio stomaco sta bruciando di rabbia.
Basta, basta, basta!
Inizio a correre come un pazzo, scansando e sbattendo contro le poche persone rimaste in strada. Non voglio pensare, non voglio pensare, non voglio. Pensare.
Alcuni affermano che pure il mondo stesso sia una prigione. Ecco. Si sbagliano. Il mondo è libero, è la vita la vera prigione, o se non altro la vita che ci siamo creati. Società. Fin dalla nascita la nostra vita è programmata, dall’inizio alla fine. Nasci, ti viene fornita un’educazione da microonde sia dai tuoi genitori che dall’istruzione, cresci sperando in un lavoro, lo ottieni, ti sposi, fai debiti con banche per avere un tetto sopra la testa, lavatrice, lavastoviglie, auto, piscina, fai figli, gli insegni quello che ti hanno insegnato, ti godi la pensione (forse), muori. Tutto per il bene della società.
Siamo noi i figli illegittimi della società.
Noi piccole e sfruttate schiavette di una dominatrice piena di acciacchi. So che queste cose sembrano solo vecchie storie di conformismo, ma anche se fosse non è detto che siano sbagliate. Il potere alla fine è nostro. Il potere è consapevolezza. La consapevolezza è il bastoncino che usi per toglierti dalla suola della scarpa la merda appena pestata.
Crollo così, nascondendomi dalla società, rifugiandomi in un vicolo, disteso contro un muro di mattoni sfatto, strafatto di vita.
Non c’è nulla da dire, il genere umano ha passato da un pezzo la sua data di scadenza e il bello è che nessuno sembra essersi reso conto del rancido che si annusa qui in giro, il tanfo ci sta impestando ulteriormente il cuore.
Speranza. Speranza. Speranza.
Un cieco che non riesce a trovare l’interruttore della luce.
Rovescio un bidone dell’immondizia. Rifiuti sparsi ovunque infestano il manto bianco. Inizio a mangiare. Solo quando passi del tempo con una cosa inizi ad amarla, quando ce ne stai per troppo invece, tutto quell’amore che avevi provato, tutte le belle sensazioni che ti ha dato, si trasformano in odio profondo.
Inghiotto cibo marcio e maleodorante.
(Per questo tanti matrimoni sono in crisi).
Bevo fondi di trielina dalle bottiglie.
(Per questo tante nazioni sono in crisi).
Inghiotto succosi scarafaggi raspati dal fondo.
(Per questo tanti cercano del conforto nella droga o nell’alcol).
Bevo sangue infetto da siringhe usate.
(Per questo tanti cercano conforto nell’amore).
Inghiotto e bevo qualsiasi cosa.
(Per questo il suicidio alla fine non mi sembra una cosa tanto brutta).
Mi strafogo con tutta l’immondizia che trovo. Prendo tutti i soldi della giornata che ho in tasca e li butto nella spazzatura, prendo l’accendino e accendo. La trachea sta per esplodere, l’aria è ormai solo un ricordo. Sto per morire, tra il freddo del mondo e il calore monetario. Svanisco lentamente, sommerso da un lenzuolo invernale che mi socchiude le palpebre.
Lentamente.
Così, speravo di sentirti mia, pensavo fossi unica, ma alla fine eri solo una delle tante. Vita, ti meriti solo una botta e via.
Giulio Vellar
Foto di copertina di Marco Formicola

