
Maradona, la Caritas e bastoncini di pesce
Mettersi in lista per andare alla Caritas era un buon motivo per saltare la scuola. Io e il Vacca stavamo soffocando e risparmiarci un giorno di galera sembrava cosa buona e giusta.
A Roma faceva davvero caldo. Vacca lo sapeva bene e mi aveva coinvolto:
“Non mi dire che oggi, per la prima volta, hai studiato e vuoi farti interrogare?”
“Per carità! Scherzi?”
Per la stessa ragione il mese dopo ci saremmo fatti succhiare mezzo litro di sangue sul Lungo Tevere.
Arrivammo alla mensa di Collo Oppio verso le dieci per essere addestrati. Ci meravigliammo: non eravamo gli unici. Ogni scuola aveva mandato qualcuno e di sicuro non i migliori elementi, noi non lo eravamo di certo!
“Le donne fanno accoglienza e pulizia dei tavoli alla fine del servizio. I ragazzi servono pane e acqua e riempiono i vassoi. Forchette di plastica e un tovagliolo attorno. Non scordate i bicchieri di carta, non scordate l’educazione. Questa è gente che soffre!”
Discorso a loop. Persone diverse, parole uguali, voce ultramagnetica. “Prima entrano e fanno vedere la tessera. Riempiono i piatti e vanno al tavolo. Poi si sfondano. Oggi bastoncini di pesce!”
Io e il Vacca avevamo già rimorchiato.
“Perché lo chiamano così? E’ così carino!”
“No, è il suo cognome. Ma dovresti vedere come mangia e soprattutto quanto caca. E quanto puzza”. Rispondevo. Lui pure iniziava a demolirmi!
“Pensa che ce l’ha talmente piccolo che quando lo tira fuori le ragazze gli fanno:
“No grazie non fumo!”
Questo, secondo lui, doveva far ridere e doveva offendermi.
Poi passavamo a prendere per il culo le nostre madri.
Ma in genere funzionava con le ragazze. Vacca era comico di suo e non gli servivano certo quelle stronzate per far ridere. Io in genere, facevo pena e non avevo mai una lira in tasca. Ora che ci penso non ho mai capito cosa potesse piacere di me, eppure ho gli occhi grandi e scrivo bene.
Quelle erano due strappone di una scuola di Colle Aniene, bruttarelle ma sufficientemente zoccole da essere perfette per noi: capelli unti, zaini pesanti e tette sproporzionate per il resto del corpo.
“Piacere Silvia!”
Lei era toccata a me.
Si erano messe vicino a noi per il riconoscimento. Quelli intanto cominciavano ad arrivare e io già avevo fatto le mie battute migliori, quindi mi limitavo a sorridere ed ascoltare. Aveva una voce tiepida ed era bello sentirla parlare.
Cominciavamo anche a stufarci di questa cosa.
“Il volontariato è una vera merda! I cattolici sono una merda.”
Lei rispondeva a tono e cose neanche troppo stupide.
“Controllano Roma e presto controlleranno l’Italia e il mondo. Hanno buone armi: carità e senso di colpa. Controlleranno l’economia e le mode: sanno come entrare nei cervelli vuoti, fidati. Io ne conosco più di qualcuno.”
Era spiritosa dai! Per me era perfetta, non troppo bella, non troppo magra, vabbè era un cesso, ma almeno era libera, non puzzava e non dovevo fare troppa fila per entrare e metterle una mano dentro le mutande. Io me la volevo scopare e lei ci stava, tutto qui!
La mensa ormai s’era riempita e tra zingari, neri, cinesi e poveri in genere c’era una puzza che quasi svenivo. Con la scusa di fumare andavo ogni dieci minuti a prendere una boccata d’aria di fuori.
Stava andando tutto bene, Vacca era preso a versare il vino nei bicchieri di carta e tutti lo chiamavano.
Silvia mi aveva seguito, neanche lei fumava ma la scusa era buona. Sotto quello spicchio di sole sembrava meno brutta. La luce entrava nella sua bocca rimbalzando nello spazietto tra i denti, il caldo tra i capelli sporchi e sotto i vestiti.
A me piace guardare la bocca delle donne quando pronunciano determinate parole: seguo la lingua, la immagino sbattere sul palato e cadere velocemente giù, al suo posto. Guardo in mezzo ai denti: controllo che quelli di sopra combacino con quelli di sotto. Guardo le innumerevoli fessure che hanno le labbra, hanno tutte un colore diverso. Provo a contarle.
Ci dovevamo sbrigare ma non c’era tutta questa fretta, io poi non ce la facevo più. Parlavano tutti a voce altissima e tutte quelle lingue diverse avevano riempito la sala di rimbombi accecanti. Tutti con qualcosa da dire e qualcosa da dare. Neanche fosse Natale.
Che poi bastava solamente limitarsi a mangiare velocemente, lavarsi i denti e via, ognuno alle proprie vite.
Quello era una specie di oratorio, e passato il campo da calcetto c’era una discesa che portava ad un magazzino di attrezzi vari e vecchie impalcature di carri di carnevale. Silvia mi aveva spinto là sotto ed io l’ho subito baciata, senza dire niente.
Le frugavo sotto la felpa tra le tette enormi e lei mi sbottonava e si strusciava. Così l’ho tirato fuori.
“No grazie, non fumo!” ha detto, pensando che quella fosse una grande battuta. Ha riso a crepapelle con gli occhi illuminati e anch’io. Ha continuato a toccarmi fino a che sono venuto tra le sue dita e sul muro. Si è scrollata la mano e l’ha messa sotto il tubo dell’acqua poi l’ha passata d’istinto al lato dei jeans strappati.
Senza sapere cosa dire e cosa fare, le ho fatto un sorriso e una carezza. Lei ha ricambiato il sorriso.
“Questo è il mio numero, domani ho casa libera, se vuoi… chiama!”
“Già chiamato!” ho pensato.
Rientrati, Vacca stava litigando con un barbone.
“Testa di cazzo torna per strada in mezzo alla merda, ringrazia che oggi sto in vena e non mi voglio sporcare le mani!”
Intanto un prete si era avvicinato per vedere cosa stesse succedendo.
“Pensa te quel negro di merda m’ha tirato addosso il pane e ha fatto: il pane duro mangiatelo te!”
Io mi sono messo a ridere e lui ha lasciato stare. Di solito mi mettevo sempre in mezzo a chi litigava, a volte anche senza conoscere neppure i soggetti e, a volte, anche quando non era il caso.
Insomma, la mensa s’era svuotata e siccome a quelli che servivano spettavano gli avanzi, ci siamo serviti anche noi.
Io e Vacca ci davamo sotto coi bastoncini, il pane integrale e le brocche di vino bianco annacquato. Dopo dieci minuti eravamo gonfi e ubriachi, Silvia era sparita, aveva scritto il suo numero su un biglietto che avevo cacciato in tasca. E pure l’amica era sparita. Tutte e due se n’erano andate senza nemmeno salutare.
Vacca era uscito di corsa nel campetto e stava cominciando a fare finta di giocare a calcio. Io gli andavo dietro e gridavo: passa passa. Ad un certo punto ha alzato la sua palla immaginaria ed io, per non lasciarla andare, ho fatto una rovesciata vera e sono cascato di schiena sul cemento. Sono rimasto sdraiato per un’ora e Vacca accanto a me.
Parlando la sbornia passava e il giorno finiva. Qualcuno, di tanto in tanto, si avvicinava per vedere se eravamo ancora vivi. Sì, eravamo ancora vivi, scemi, giovani.
La mensa aveva chiuso da un pezzo e io m’ero scordato tutto: che cazzo ci facevo lì e perché il Vacca aveva quella faccia e quel sorriso stupido? E perché guardavo dal basso tutti quegli uomini con le tonache nere che ci fissavano e ridevano di noi.
Mi ero scordato di Silvia e avevo perso il suo numero, mi ero scordato di quello che avevamo fatto, nascosti tra le scope e la macchina per tagliare l’erba e i carri di carnevale con Maradona che prende a calci il mappamondo o era Hitler o Chaplin, non mi ricordavo nemmeno questo. Ma poi cosa importava? Di calci ne avremmo presi comunque tanti e sicuramente più di quelli che avremmo dato. Abbiamo preso la metro a via Cavour. Vacca è sceso a Bologna, io dovevo tornare a Guidonia. Avevo un terribile mal di testa e un fiato che pareva quello di mio nonno quando tornava ubriaco marcio.
Né io né il Vacca il giorno dopo saremmo andati a scuola.
Stefano Tarquini

