racconti

L(‘)a(t)tesa

– Come lo bevi il caffè? 
– Da sola.

Dal film “Delitto sulla spiaggia”

– Alessio mi ha detto che sarebbe arrivato al massimo per le tre e mezza. Direi che ho il tempo di fargli un caffè e sistemare qualche ferro di cavallo e qualche occhio di bue. A lui piacciono.
Silenzio all’altro capo del telefono.
– Però non vorrei sembrare troppo entusiasta o nervosa, né dargli l’idea che i biscotti e il caffè siano solo una qualche carineria o una ruffianata per ottenere qualcosa da lui.
Mezzo secondo in apnea, poi riprendo fiato.
– Non ha senso. Che cosa dovrei ottenere? Cioè, è lui quello che vuole parlare con me. Io non so neanche cosa vuole dirmi.
– So che sei nervosa e tutto il resto, Val, però non mi farei tutte queste paranoie prima del tempo.
– Tu non capisci, Bea. Il punto non sono io. Il problema è che Alessio è stranissimo da un mese, ormai, e tutte le volte che glielo chiedo mi dice che non ha niente. Come non credergli? E poi ieri se ne esce con questo “ti devo parlare”.
– Val, ascolta. Io non so cosa abbia fatto Alessio, però tu…
Non la lascio continuare.
– Forse mi vuole lasciare. Forse è malato e non sa come dirmelo. Forse ha un’altra! Ha senz’altro un’altra, cazzo.
– Val, per favore…
Sono di nuovo in apnea:
– È che questa cosa… Come si fa a dire alla ragazza con cui stai da due anni che devi parlarle dopo un mese di “niente-niente” ma in cui chiaramente c’è qualcosa che non va?! Io non credo sia molto giusto.
– Vaaaaal, dimmi la verità: quanti caffè hai bevuto?
– Stavo per metterlo su per Ale.
– Vaaaaaaal!
– Cinque – sussurro.
– Lo sapevo.
– Ma da stamattina!
– Sono le due e venti, Val. Stamattina era tre ore fa.
– È che mi sono svegliata nervosa per ‘sta cosa, poi ho bevuto un caffè come al solito, poi ne ho preso un altro ma ero ancora un po’ agitata, non sapevo che fare e alla fine ne ho bevuti altri tre.
– Solo tu puoi pensare che sia sensato bere caffè per calmare il nervosismo.
– Ma no. Ma no. È che io…
– Facciamo così. Tu ora ti rilassi, ti siedi e aspetti Alessio. Ti dice quello che ti deve dire e poi tu mi chiami e ne parliamo. Va bene?
– La fai facile. Non sei te che…
– Arrivo! Scusa, Val, devo scappare.
Ha attaccato.
Mi alzo dalla sedia e alzo la suoneria del cellulare, poi mi appoggio al fornello e comincio a fissare la vecchia moka della nonna immobile sul fuoco spento.
La nonna diceva sempre che non esiste nessun problema che non si possa risolvere davanti a un caffè. A pensarci bene, perché continuo a bere caffè su caffè se non fa che agitarmi ancora di più? Mi viene il dubbio che sia una sorta di rifiuto al problema di Alessio. A questo suo “volermi parlare”. Apro la credenza e mi faccio spazio fra le penne rigate n° 41 e quelle lisce n° 40 – perché mia madre continua a comprarmi le penne lisce? –, poi sposto il vecchio barattolo dell’orzo Bimbo e prendo il contenitore del caffè.
– Basta caffè! Tanto Alessio non lo beve più.
Svito la caffetteria, la privo del filtro facendo attenzione a non spargere la polvere dappertutto e la svuoto nel contenitore del caffè. Richiudo con il tappo ermetico e rimetto tutto a posto. Ora la moka è mutilata, scomposta in tanti pezzi. La raccolgo, la sciacquo velocemente e la metto nello scolapiatti in plastica che la mamma ha vinto con i punti del Conad e ha voluto regalarmi a tutti costi. Guardare la moka in pezzi e dentro lo scolapiatti mi fa tornare all’estate di tanti anni fa.
Ricordo che la comprò nell’estate del ’94 perché quell’anno c’erano i mondiali in America. Ricordo che il nonno diceva sempre che il primo caffè bevuto con questa moka era stato il giorno del rigore di Baggio.
Non saprei dire se mi ricordo dei mondiali per via della moka o della moka per via dei mondiali, o forse mi ricordo di entrambe le cose perché quella è stata una delle ultime estati al mare con tutti e due i nonni. Tutte le volte che sento l’odore del caffè appena fatto, faccio un viaggio nel tempo, in quei pomeriggi caldi quando mi risvegliavo dal riposino sentendo quell’aroma inconfondibile. In un attimo, cominciano a scorrermi davanti agli occhi tutte le immagini del passato: mia nonna che sculetta preparando il pranzo, mio nonno che canticchia… Ma i ricordi più potenti che ho sono odori. L’aroma del caffè, il cloro della piscina comunale quando mi ci portava mio padre, lo zucchero filato delle giostre, l’incenso a Messa la notte di Natale. 
Cazzo! Guardo una moka e divento Proust. Dove cazzo sei finito, Alessio?! Sono frastornata, palpitante, nervosa e un po’ scossa. Apro l’altra credenza. Forse potrei sistemare un po’ ‘sto casino, magari mi rilasso.
Prendo i calici e i bicchieri di servizi ormai spaiati, tiro fuori i vecchi contenitori della Nutella che ora uso per bere, sposto le tazzine della zia, metto al loro posto i piattini e per poco non faccio cadere il boccale di birra del nonno – ancora non so bene perché sia io ad averlo. È assurdo che io viva in questa casa ormai da un anno e non abbia ancora finito di sistemare.
Dispongo i calici in fondo al pensile – tanto non li uso mai –, piazzo i bicchieri raggruppandoli per tipo – dev’esserci qualche legge fisica per cui i servizi da sei dell’Ikea diventano servizi da tre o da quattro senza che qualcuno se ne accorga – e sposto il barattolo dello zucchero in un angolo. Abbasso lo sguardo sulla moka e, ancora una volta, il caffè e il suo mondo tornano a colpirmi con i ricordi. Sospiro e la metto via.
Il nostro primo appuntamento è stato davanti a due tazzine di caffè. Decido di tornare a quel passato coccolandomi con un biscotto: prendo gli occhi di bue dal ripiano, mi siedo e comincio a mangiare.
Ci sedemmo vicini a lezione, lui attaccò bottone parlando dell’esame di Geografia e dopo una settimana mi propose un caffè. Un caffè… Dopo il primo da Zondini, il secondo al Caffè delle Torri e il terzo in piazza, cominciammo a girare tutti i bar della città per scoprire qual era il caffè migliore. Poi un giorno mi chiese di salire in casa. Entrammo in cucina, ci sedemmo a tavola per parlare e lui preparò il caffè! Disse che toccava a lui e che avrebbe avuto la meglio su tutti i bar della città.
Ricordo che fu un pomeriggio meraviglioso: io seduta di fronte a lui a bere caffè e sul tavolo una moka si frapponeva fra noi.
– Ma dov’è finito? Porca miseria.
Mi alzo, metto il vassoio vuoto vicino al fornello e comincio a girare per la casa. Sono le tre e venti e lui ancora non si vede. Mi chiedo di cosa voglia parlarmi.
Sta male?
Ha un’altra?
È stato licenziato?
Non è più felice?
Perché ho bevuto così tanti caffè?
Mi tormento, mi sembra di impazzire, la mia mente viaggia a mille all’ora e Alessio non si vede.
Sono già le quattro. E se gli fosse successo qualcosa?
Mi siedo sul divano.
Vado a fare la pipì.
Controllo Instagram.
Metto mi piace a una foto di Brie Larson.
Mi risiedo in cucina, vengo tentata dai ferri di cavallo ma resisto.
Forse potrei chiamare la Bea.
Sono le cinque e Alessio non si è ancora visto. Non risponde neanche al telefono. E se non venire fosse la cosa che voleva dirmi? Se fosse tutta una strategia perversa? Non so più cosa pensare. Mi alzo, prendo la caffettiera, la preparo e la metto sul fuoco.
Sono le cinque e dieci e Alessio non è venuto. Lo aspetterò ancora, lo aspetterò finché non mi richiama o non arriva, se davvero deve dirmi questa cosa importante prima o poi arriverà. Lo aspetterò e intanto bevo un altro caffè dalla moka della nonna.

Alessandro Mambelli

Foto di copertina di Francesca Zanette