
IL TESORO DI QUALCUN ALTRO
La prima volta che la vidi ero seduto in uno dei posti in fondo al 17, l’autobus che taglia Firenze da una parte all’altra della sua estensione. Avevo un libro in mano ed i miei spessi occhiali da lettura, continuavano ad appannarsi per la grande umidità. La stagione delle piogge stava finendo ma il grande caldo, ormai, ci aveva avvolto come un mantello.
Toglievo gli occhiali e li pulivo, strofinando entrambe le lenti contro la mia maglietta in cotone bianco. Ci mettevo tutta l’energia che potevo, quasi scocciato dal numero di volte in cui mi trovavo costretto a ripetere quel movimento ormai meccanico ed automatico. La maglietta era stropicciata, ma poco importava: stavo tornando a casa dopo il lavoro. E, mentre tenevo le lenti avvolte dal cotone tra indice e pollice, lo sguardo fissava distratto il finestrino che rimandava scenari diversi man mano che il veicolo procedeva: un albero ornato di candidi boccioli, un uomo con gli auricolari che agitava la mano gesticolando mentre nell’altra teneva al guinzaglio un beagle, un ristorante thailandese dove ricordo di aver mangiato una volta con una ragazza mai più rivista. Che serata tremenda fu quella!
Poi vidi lei. Immerso com’ero nell’ennesimo libro che divoravo, non mi ero nemmeno reso conto della sua presenza e, una volta distolto lo sguardo dalla pagina, non volevo guardare nient’altro che non fosse la persona seduta di fronte a me.
Imbambolato, deglutivo sentendomi a disagio.
Forse sono stravaccato sul sedile? Mi chiedevo. Ho un odore particolare? O forse sono spettinato?
Lei pareva non essersi accorta di me.
Era bellissima, una dea, un incanto e mi toglieva il fiato, illuminava il mondo.
Continuavo a pensare che fossi seduto male o che il libro che stavo leggendo fosse stupido.
E anche se cercavo di concentrarmi, puntualmente i miei occhi andavano dalle parole a lei, come fossero calamitati. E guardavo i suoi capelli castani, i suoi riccioli, la forma del suo mento, la linea delle labbra.
Solo dopo un paio di minuti, per me infiniti, mi resi conto di cosa stava accadendo intorno a me: la signora accanto a lei la guardava di sottecchi. Dei ragazzini in piedi bisbigliavano tra loro e la indicavano ridendo. Pure il signore seduto accanto a me la guardava con aria interrogativa. Lei sembrava non farci caso: cuffie alle orecchie e sguardo rivolto al finestrino. Indossava una canottiera rosa, di quelle strette ma non mi sembrava quello un buon motivo per ridere di lei o scandalizzarsi. Non capivo.
Solo quando, per l’ennesima volta tolsi gli occhiali, notai che, la sua pelle, color nocciola, aveva grosse chiazze, che viravano ad un pallidissimo bianco, disseminate su gambe, braccia, collo e volto. Aveva la vitiligine.
Riuscii a fissare un primo appuntamento in un bar in pieno centro storico, in un fresco pomeriggio di maggio. Avevo proprio voglia di una birra ghiacciata, ma lei ordinò un thè freddo e, per non passare da alcolista, mi tenni casto e leggero con un succo di frutta.
Seduti uno di fronte all’altro, cercavo di coprire il suo silenzio riempiendola di domande alle quali rispondeva stentata e veloce. Poi le proposi una passeggiata sui lungarni e i suoi silenzi divennero incombenti. Decisi così di lasciarli liberi, come volevo si sentisse lei: libera e pronta, qualsiasi fosse il momento, a parlare di qualsiasi argomento.
Rincasato, però, mi resi conto che non c’eravamo mai toccati: né una stretta di mano, né un bacio sulla guancia. Nulla. Anche quando l’avevo riaccompagnata a casa, mi aveva salutato con un sorriso e un’alzata di mano.
Continuammo a vederci altri pomeriggi, altre sere e nonostante, ad ogni nuova uscita, mancasse completamente anche un minimo contatto fisico, lei rideva ed io mi innamoravo. E cominciai anche a pensare che quelle risatine e gli sguardi che avevo notato quel giorno sull’autobus e che lei aveva finto di ignorare, per lei fossero una dolorosa regola e non un’eccezione. Avrei voluto chiederle qualcosa in merito, ma mi imbarazzava solo l’idea. Così decisi di lasciare che il tempo facesse la sua parte.
E così è stato: sono seduto sul divano di casa sua, ho il cuore che va a mille e mi sembra di balbettare.
“Senti, hai da fare? Ti va di salire su da me? Magari ti offro una birra o un caffè!” mi ha detto poco fa davanti al suo portone mentre aspettavo il suo rituale ciao con un gesto della mano fatto a debita distanza. Dire mi ha sorpreso, è riduttivo: mi sembrava di volare a mezz’aria, penso di non avere salito le scale ma di esserci semplicemente galleggiato sopra.
“Mettiti comodo, vado un attimo in bagno.”
E ora sono qui che fisso la porta rossa del bagno, proprio davanti a me, con le mani che sudano e la gola secca. Poi guardo intorno: il computer chiuso sulla scrivania in legno bianco davanti alla finestra, il vaso di fiori per terra, l’incenso spento, il frigorifero arancione della Smeg ed una foto attaccata sopra. Noto il colore delle pareti, il giallo di una maglietta appoggiata sul letto, le perline davanti all’ingresso della cucina. L’odore di chiuso, il fresco di un profumo spruzzato in aria. Osservo tutto e mi agito, sono un mare in piena, le mie onde affondano le rocce, le aggrediscono con veemenza.
Respiro.
Respiro profondamente.
E poi vedo il mio riflesso nello specchio: sembro apparentemente calmo, neutro. Quasi assente. Mi sembra di avere una paresi facciale: sono completamente privo di espressione, mi sembra di fluttuare dentro una bolla.
Mi metto a sedere sul bordo del divano, sporto in avanti, pronto ad alzarmi. Gli occhi riprendono a roteare per tutta la stanza e mi stupisco di come gli oggetti non abbiano cambiato posizione: il vaso è sempre lì e la maglietta è distesa sulla stessa parte di letto.
Poi la luce: la porta rossa si apre, e lei compare con il solo paio di mutandine addosso. I riccioli castani le coprono parte del volto, le labbra carnose restano socchiuse ed i suoi occhi sono su di me. Impiego un secondo per realizzare che lei è praticamente nuda. Da sotto le mie mutande qualcosa si muove d’istinto. Trasalgo.
Lei muove due passi verso di me e poi si lancia come una pantera a baciarmi. La sua forza e il suo peso mi costringono a sdraiarmi sul divano e, a questo punto senza pensarci troppo, le afferro il culo e, tra un bacio e un altro, guardo il suo seno. Ci sono macchie di vitiligine anche lì. Sorrido: sembra una spolverata di zucchero a velo.
Finalmente, dopo aver tanto atteso un suo contatto, una carezza sulla mano, un bacio sulla guancia, si è gettata su di me donandomi tutto. La sento scavare fremente tra i miei pantaloni, sganciare la zip ed infilare la mano calda per afferrare il mio pene. L’accarezzo, sento la sua schiena che freme. Sento che ci stiamo possedendo, che nessuno e niente può entrare in questo nostro piccolo spazio. È come se fossimo le uniche due persone sulla faccia della terra, come se fossimo corpi spaziali che vagano per la via lattea, due gocce che formano un oceano. Sento i suoi spasmi di piacere mentre con le dita tocco il suo punto delicato, spostando le mutandine. Ho le sue unghie infilate nella pelle: si tiene forte alle mie spalle. Intanto fuori può esplodere tutto, il sole può implodere su sé stesso, la luna sciogliersi, il vento e la tempesta inondare questa terra: a noi non importa. Importa solo che stiamo vivendo il più bel momento delle nostre vite, avvinghiati l’uno all’altra: un estremo piacere ci avvolge e così restiamo vittime di un’immensa estasi.
Siamo nudi, distesi accanto lungo il divano, ci coccoliamo con piccoli baci innocenti. Poi lei si alza mostrando la sua reale bellezza, il colore della pelle che si mischia e la rotondità della pancia.
Mi siedo anche io e, nonostante mi sia promesso di non dire nulla e soprattutto di non chiedere nulla, sento la mia voce pronunciare:
“Prima di ora non ti facevi nemmeno sfiorare da me. È una cosa che mi mandava ai matti”, e lei si accoccola sulla mia spalla. “Non sono mai riuscito a tenerti la mano ed anche quando ti salutavo dopo una bella serata, al massimo mi facevi un ciao da lontano. Pensavo di non piacerti. Mi ha sorpreso molto il tuo invito in casa stasera. Cosa ti ha fatto cambiare idea? Ho fatto qualcosa di sbagliato, che magari poi senza volere, ho rimediato?”
Lei mi guarda con gli occhi dolci. Si alza, si infila la maglietta e si appoggia al frigorifero.
“Fin da quando ero bambina, la vitiligine mi ha sempre causato problemi. Da piccola mi prendevano in giro perché non sapevano se fossi bianca o nera. Da adolescente era troppo bianca per i neri e troppo nera per i bianchi. La cosa mi ha condizionato tantissimo, non riuscivo neppure a guardarmi allo specchio. Non avevo risposte per combattere il malessere che sentivo dentro me.”
Poi prende un cavatappi da un cassetto, apre il frigo e ne tira fuori due birre. Me ne porge una:
“Mi sentivo vulnerabile. Poi un giorno conosco un ragazzo bellissimo, con gli occhi color del cielo ed i capelli biondi. Mi trattava bene, mi diceva che gli piaceva stare con me e che non gli interessava il problema della mia pelle. Abbiamo fatto l’amore nella sua macchina una sera d’estate. Pensavo di aver trovato il vero amore, di aver trovato quella persona che per la prima volta non si sarebbe fermata alla mia vitiligine. Dopo quella sera non ci sentimmo per una settimana. Stavo malissimo: avevo perso la mia verginità con lui, avevo donato a lui la mia libertà. E il bello è che stavo dando la colpa a me per quello che era successo: era sicuramente colpa mia se lui era scappato. Non facevo che chiedermi: sono troppo acerba per lui? Troppo piccola? Una settimana dopo lo vidi per strada insieme agli amici, gli andai incontro per salutarlo, avevo le lacrime agli occhi dalla contentezza. Fece finta di non conoscermi fino a quando un suo amico non gli chiese se fossi io quella con la pelle strana che si era sbattuto!
Era tutta una burla per lui, una scommessa, una sfida fatta con gli amici. Mi aveva fatto sentire ancora più strana, ancora più anormale. Ero vuota. Non volevo che nessuno mi toccasse mai più.”
Si ferma e da un paio di sorsate.
“Poi sei arrivato tu che hai spezzato ogni mia difesa. Non mi hai mai chiesto cosa avesse la mia pelle, non hai mai provato a baciarmi. Non sentivo pressioni da parte tua. Hai dato il tempo alla mia mente di potermi fidare di nuovo. Per questo ho atteso finora. Sei contento di aver aspettato con me?”
“Sono al settimo cielo. Sei la ragazza più bella che abbia mai visto in vita mia. Mi hai tolto il fiato dal primo momento che ti ho vista. Sei il mio tesoro più prezioso.”
“Il rifiuto di qualcuno…” fa lei sorridendo.
“…è il tesoro di qualcun altro. Per sempre.”
Raffaele Camerini

