
18 giugno
Tiro fuori la mano dalla tasca del cappotto e con il tiepido calore che emana abbraccio la punta del mio naso con le dita, cercando di scaldarlo un po’. È diventato un piccolo ghiacciolo. Succede sempre così in inverno quando esco di casa. A quanto pare il mio abbonamento al naso congelato viene rinnovato puntualmente tutti gli anni dai primi giorni di dicembre fino a primavera inoltrata.
Il fiume di persone che esce dal vagone della metropolitana quasi mi travolge, e in men che non si dica sono sulla scala mobile che mi porta verso l’uscita. Il cielo è scuro ma la sera è rischiarata da mille luci colorate che si riflettono sulla neve sporca ammucchiata sul ciglio della strada.
Mi trovo nella piazza più grande della città: una suggestiva macchia di pietra nera collocata tra edifici color pastello. Tuttavia in questi giorni dicembrini è a malapena riconoscibile: ammassati uno accanto all’altro, i banchi in legno del mercato natalizio, hanno ristrutturato l’ambiente circostante rendendolo un tripudio di sfumature di rosso, verde, bianco e oro. Il vociare delle persone ed i rumori della città si confondono con le musiche natalizie che risuonano ad ogni angolo mentre il profumo del vino caldo speziato, delle frittelle alla cannella e della frutta candita, catturano il mio naso gelato.
Inspiro a pieni polmoni osservando con desiderio lo zenzero caramellato, e lancio una rapida occhiata al grande orologio della piazza: sono le 16:15. Tra meno di un’ora comincerò il mio turno.
Decido quindi di sedermi su una panchina a piluccare, da un sacchetto di carta, lo zenzero caramellato comprato dal primo baracchino incrociato lungo la strada. Dalla mia postazione osservo l’ampia parete a vetri del centro commerciale dove lavoro. Una bambina molto minuta siede con aria titubante sulle gambe di un Babbo Natale mentre accanto a lei, quella che immagino essere sua madre stira la bocca in un sorriso forzato, gesticolando animatamente.
«Scommetto che la bambina sta chiedendo un gioco troppo costoso.»
La voce alle mie spalle mi coglie talmente alla sprovvista che nel girarmi di scatto colpisco qualcuno con il sacchetto.
«Ehi! Se disturbo me ne vado, non importa picchiarmi», aggiunge la voce in tono scherzoso, un attimo prima di baciarmi.
È Boris, il mio ragazzo. O meglio, il mio fidanzato: ci sposeremo la prossima primavera. Forse lo sguardo tradisce il mio stupore nel vederlo: Boris inarca un sopracciglio e si allontana impercettibilmente. Sembra leggermi nel pensiero.
«Cosa c’è? Non sei contenta di vedermi!» esclama. «Siamo stati insieme tutta la mattina e ora è il turno di qualcun altro? Evidentemente ho fatto bene a venire a farti visita, meglio scoprire subito se…»
Non gli do il tempo di continuare la frase:
«Ma cosa stai dicendo? Chi dovrei aspettare?» lo interrompo non concedendogli il tempo di finire. «Sono arrivata in anticipo per fare una passeggiata prima di lavorare. Mangio dello zenzero. Non vedi?» e scuoto il sacchetto davanti alla sua faccia. Poi mi avvicino, lo abbraccio e aggiungo cautamente: «Dai, non fare il geloso».
«Non sono geloso, mi preoccupo per te, per noi», e finalmente si distende.
Ne approfitto per cambiare argomento e lo distraggo cacciando fuori dalla borsa una scatola rossa ornata da decorazioni natalizie con un’apertura nella parte superiore, molto simile ad un salvadanaio.
«Oggi lavorerò come elfo di Babbo Natale. Lui intratterrà i più piccini e io mi occuperò degli adolescenti. Avanti, pesca!» e gli porgo la scatola.
«Si vince qualcosa?» e tira fuori un sacchettino di tela rossa trasparente chiuso con un nastro dorato contenente tre caramelle ed un cartoncino rosso.
«Una caramella per un Buon Proposito», legge a voce alta il mio fidanzato.
«Ti piace? L’idea l’ha avuta la mia titolare: per ogni caramella mangiata si scrive un buon proposito qui sotto», e gli indico delle righe proprio sotto la scritta. «Una volta completato il gioco si può utilizzare il biglietto per uno sconto del 10% in negozio.»
«Quali sono i nostri buoni propositi, Liz?»
Arrossisco. Quali sono i miei buoni propositi? È difficile rispondere: non voglio deludere Boris, ma ho anche paura di deludere le mie aspettative, e non mi piace esprimere i miei desideri a voce alta. Possibile che si viaggi sempre su due binari paralleli?
«Dammi una penna», chiedo cercando di allontanare quei pensieri. «Ecco, leggi un po’», e anticipo la sua voce: «Il nostro matrimonio sarà il più romantico del mondo. Ora tocca a te».
«No, tienilo tu. Non fanno per me queste sciocchezze», è già finita la magia.
Non riesco a nascondere la delusione, e ancora una volta la cosa non sfugge a Boris che indicando l’orologio della piazza commenta:
«Più tardi scrivi tu un proposito per me. Ora è meglio che tu vada a lavorare».
Mi sveglio di soprassalto. Dalla finestra filtra un po’ di luce.
È già mattina?
Allungo una mano verso il comodino per cercare il cellulare, ma a quanto pare non è al solito posto. Rapidamente ricordo che la notte scorsa mi sono addormentata leggendo vecchi messaggi e realizzo che il mio smartphone si trova dal lato opposto, sopra il cuscino vuoto.
«Domenica 18 giugno.»
Sento la mia voce farfugliare con la bocca impastata di sonno. Mi alzo, vado ad aprire l’armadio e mi infilo la prima tuta che incrocia la mia mano. Ho fretta di richiudere l’anta: non voglio posare lo sguardo sulla scatola dell’abito da sposa.
Devo proprio decidermi a restituirlo, penso.
Ciondolo verso la cucina, e quando il thè è caldo mi siedo sul divano di fronte alla finestra a guardare l’orizzonte. Ho immaginato questo giorno decine di volte, nessuna delle quali ha reso giustizia alla realtà. Prima di tutto pensavo che il 18 giugno mi avrebbe accolto con un bel sole estivo, ma tutto sommato sono contenta che stia piovendo. Il cielo oggi è specchio della mia anima: grigio, cupo, ma troppo stanco per fare burrasca. Osservo con sguardo vacuo la pioggia fitta e leggera che cade senza fare rumore, come le mie lacrime.
Mi ero promessa di non piangere questa mattina, ma il sogno da cui mi sono appena svegliata manda all’aria tutti i buoni propositi. Era poco più di un ricordo, un evento sciocco, intimo, troppo vicino e allo stesso tempo troppo lontano, quando ancora andava tutto bene.
Al diavolo i buoni propositi!
Boris, forse solo su questo, aveva ragione: sono una sciocchezza. Anzi sarebbe meglio dire che sono io la sciocca: come ho potuto pendere così dalle sue labbra, senza capire chi si celasse davvero dietro tutte quelle stranezze?
Tolgo la custodia dal mio smartphone e quel cartoncino cade sulle mie gambe.
“Mi impegnerò ad essere più empatico e a fidarmi di Liz!”
“Non la toccherò più!”
Alla fine avevo seguito il suggerimento di Boris e avevo scritto delle frasi al posto suo. Mi rendo conto solo adesso che lui non sarebbe mai cambiato, che non avrebbe mai desiderato realmente quello che io avevo scritto.
Credevo nel nostro amore, mi fidavo dei suoi “per te sarò un uomo migliore” e speravo con tutta me stessa che dopo il matrimonio tutto sarebbe davvero andato come doveva. Per il verso giusto. Senza botte. Senza lividi da dover giustificare con scuse tutt’altro che plausibili. Senza che qualcosa dentro, che non aveva niente a che vedere con il dolore fisico, facesse molto e ancora male.
Non conto più le volte in cui ho provato la sensazione di doverlo salvare da sé stesso. Giustificavo continuamente il suo essere violento, i suoi atteggiamenti equivoci e difettosi ripetendomi quanto fosse stata difficile la sua infanzia, quando invece l’unica cosa che avrei dovuto capire era quanto fosse abile a recitare la parte del cucciolo ferito.
Era completamente disinteressato a qualsiasi cosa mi accadesse se non lo riguardava, e riuscivo a trovare delle scusanti anche in questo, screditando ogni giorno di più ogni mia emozione e azione, ma lo scorso gennaio qualcosa è cambiato.
Mio nonno, che per me è stato anche padre e amico, si è spento all’improvviso, senza che potessi dargli un ultimo abbraccio per accompagnarlo in questo nuovo, lungo viaggio. D’un tratto mi sono sentita sciocca ad affidarmi ai buoni propositi neanche fossero formule magiche capaci di rivoluzionare le sorti del rapporto con il mio fidanzato. E mi sono sentita ancora più stupida e cieca quando lui, Boris, il mio futuro marito, mi ha lasciata perché “stanco delle mie inutili lamentele”.
Quel giorno, mentre lo osservavo lasciare il vialetto di casa, improvvisamente un macigno di consapevolezza è caduto sulle mie spalle: Boris non voleva una vita di amore e condivisione: per lui ero solo un gioco su cui sfogare i suoi istinti da cane rabbioso. Ho capito che avrei dovuto fare più attenzione non alle sue parole, ma ai suoi gesti, alla gelosia e alla sua violenza. Ho capito che non sono proprietà di alcuno se non di me stessa e che mai alcuna frase può convincere una persona del contrario.
Oggi, 18 giugno, avremmo dovuto sposarci, sarebbe dovuto essere il giorno più bello della nostra vita. Avrei dovuto provare una gioia immensa e invece quello che provo è un misto di rabbia e indignazione e non so se prendermela più con lui per quello che mi ha fatto o con me per averglielo lasciato fare.
Avrei dovuto, come sarebbe stato sono come le lacrime che stanche non cessano di cadere dai miei occhi.
Forse, in tutto questo caos, almeno una cosa buona Boris l’ha fatta: lasciarmi proprio nel giorno del funerale della persona a me più cara senza il minimo rimorso, mostrando così il suo vero volto. È così che ho scoperto quanto coraggio si celi dentro me, e alla fine qualcosa tra di noi è davvero cambiato in meglio: quando è tornato da me, un mese dopo, non mi sono neanche degnata di aprire la porta per sentire cosa avesse da dire. Non mi interessava.
Questo cartoncino rimarrà con me come monito, insieme alle parole che mio nonno mi ripeteva in continuazione:
Prendo una penna e decido di scrivere sull’altro lato del cartoncino una frase da cliché, una di quelle che dico sempre di non sopportare, ma che è vera come la pioggia che adesso sta cadendo fitta e leggera:
Elena Fiorentini

