
18°19’N 64°37’W, Le isole di Norman
In attesa, al semaforo, sollevo il braccio per guardare l’orologio: mancano pochi minuti alle 11.
Attraverso il viale, muovo ancora qualche passo e poi, con un piccolo balzo, atterro su quella che a me pare un’enorme casella nera. Mi fermo lì, mi guardo attorno e cerco di orientarmi con lo sguardo su quell’estesa scacchiera che è la Terrazza Mascagni.
Scruto le poche persone che affollano il lungomare: volti mai visti prima sorridenti, pensierosi, chiacchieroni mi passano accanto. Nessuno che io riconosca.
Destata dal garrito di un gabbiano, mi incammino senza una destinazione precisa. Tiro fuori dalla borsa Le isole di Norman nella segreta convinzione che, come una bussola, sarà proprio lui a condurmi da lei. Funziona.
Dopo poco la vedo. Veronica Galletta, con i suoi ricci neri, mi dà le spalle: è appoggiata con i gomiti alla balaustra, una gamba saldamente ancorata a terra e l’altra leggermente piegata. Contempla un mare increspato. Mi ricorda Ragazza alla finestra di Dalì.
La chiamo. Si volta, ci presentiamo e poi mi dice:
– Facciamo due passi.
Camminiamo in silenzio. Di tanto in tanto lancia un’occhiata ai margini del libro e sento di dovermi in qualche modo giustificare:
– Non avevo mai visto una copia intonsa, – spiego, – i fogli erano uniti, non rifilati. Ho pensato a un difetto di stampa e invece poi, facendo qualche ricerca, ho scoperto una cosa nuova.
– Forse però sei stata poco clemente con il tagliacarte, – aggiunge.
– Diciamo che non era un vero e proprio tagliacarte, ma un umile coltello da cucina.
Sorridiamo e sento la tensione allentarsi: è simpatica, alla mano. Ma di cosa mi stupisco? Da quando in qua un Premio Campiello Opera Prima è un mostro a tre teste che aggredisce chiunque incontri?
– Allora che ne pensa? – e mi indica il suo romanzo.
– Ho finito di leggere il libro una settimana fa e da allora porto con me la sua storia. Cioè quella di Elena, – mi correggo.
Annuisce e mi sento autorizzata a proseguire:
– La sua è una storia che parla di tante cose. Intanto mi ha lasciato la voglia di leggere La Montagna incantata e L’isola del Tesoro. Un po’ perché non li ho mai letti e un po’ perché sembra siano correlati a Elena.
– Bè, lo sono, – interviene.
– Sì, vero: lo sono. Quello che intendo dire è che in qualche modo questi libri, citati più volte nel romanzo, sono identificativi del legame che Elena ha con i suoi genitori: il romanzo di Mann pare essere la chiave di lettura per comprendere la madre Clara mentre quello di Stevenson lega Elena non solo a Michele, suo padre, ma in un certo senso anche a sé stessa, alle sue stesse cicatrici, quelle che tutti e tre chiamano “isole”. E a questo proposito ho un tarlo che mi gira in testa da qualche giorno: chi è Norman? Ha qualche relazione proprio con questi libri o si tratta di un riferimento storico alla dominazione normanna?
Il suo volto si apre in un sorriso prima di rispondermi:
– Molto bella questa cosa della dominazione normanna, mi piace che nel cercare un senso si producano altri sensi, anche al di là di quanto voluto da chi scrive. In fondo è per questo che si dice che un libro è di chi legge, no? Mi piace però anche allora non dirlo del tutto, ma lasciare solo un indizio: esiste un’isola di Norman.
Mi lascia incuriosita e in silenzio.
– E invece lei cosa intendeva con “è una storia che dice tante cose”? – mi distrae dai miei pensieri e mi riporta a questa realtà.
– Si, ha ragione, – balbetto. – Dicevo: nella storia di Elena sono presenti tanti elementi che fanno riflettere. I “non detti” familiari che si trascinano e logorano rapporti o li salvano a modo loro, come in questo caso. Memorie di ricordi reali che si confondono con quelli immaginati. E poi mi ha colpita questa cosa delle mappe di battaglie navali.
Smetto di camminare, costringendola ad imitarmi, poi aggiungo:
– Elena costruisce coordinate di latitudine e longitudine della disposizione dei libri che Clara ha nella sua camera da letto per cercare di capire sua madre, per inquadrare la situazione, tenerla sotto controllo, come se poi davvero si potesse tenere tutto sotto controllo, ma è un’idea che la culla. Anzi per lei rappresenta una missione di salvezza.
Mi guarda e aspetta una mia domanda. Deglutisco e chiedo:
– Come mai questa passione, azzarderei fissa, per le battaglie navali?
– Mi piacciono le griglie, le mappe, le rappresentazioni bidimensionali della realtà, – e riprendiamo a camminare. – Per quanto strambe possano essere, mi piacciono. Anzi più sono strambe, o irreali, più mi piacciono. Mi piace questo sforzo dell’uomo di togliere gradi di libertà, di creare sistemi, di scegliere cosa tenere e cosa togliere. Se potessi rappresenterei tutto attraverso una mappa, relazioni familiari, rapporti sociali, interazioni di lavoro.
Annuisco e aggiungo:
– Non sarebbe male in effetti se così fosse, non ci sarebbero troppe spiegazioni da chiedere e da dare. Che poi è quello che fanno entrambe, Elena e Clara che, da parte sua, non fa altro per tutta la vita. Poi arriva la redenzione per tutti: ad un certo punto, Clara molla la presa. Smette di cercare di capire, smette di forzare le cose. Lascia che la sua assenza diventi essenza.
Mi interrompo per qualche secondo, respiro l’aria salmastra e poi riprendo.
– Questa storia mi piace perché non pretende un lieto fine. E in effetti non c’è nemmeno una fine. C’è un racconto familiare, una storia ordinaria, seppur nella sua sofferenza, che si inserisce, come tutte le vite, nella Grande Storia. In particolare in due eventi tragici della storia italiana: l’omicidio di Aldo Moro e la strage di Capaci. Possono chiederle se si tratta di eventi che lei ha vissuto così come descrive nel romanzo?
– Sì, in parte, la protagonista femminile, la bambina prima ed Elena poi, seduta davanti alla televisione che guarda, sono io. È un riferimento autobiografico. Della strage di Capaci il mio ricordo è un rumore, i colpi ossessivi al portone di casa, a palmo aperto, dell’uomo che venne a darci la notizia.
Di nuovo annuisco e poi chiedo:
– Posso farle ancora qualche domanda?
– Certo, siamo qui per questo!
– Il suo libro è ambientato nella sua città natale, c’è qualcosa in particolare che le manca di Siracusa?
– Mmmh, – sospira pensierosa. – È difficile dire cosa manchi di un luogo dal quale stai lontano da così tanto tempo.
– Ed è un caso o è voluta, la scelta di venire a vivere a Livorno, un’altra città di mare? – incalzo.
– Negli anni ho vissuto in molte città, spostandomi sempre, però sì, se devo dire l’arrivo a Livorno, in parte casuale, si è trasformato poi nella mia più lunga permanenza in un luogo, almeno ad oggi, che sono dodici anni. E in questo il mare ha sicuramente un ruolo centrale.
Senza rendercene conto, saliamo i gradini del gazebo della Terrazza.
– E invece per quanto riguarda il suo lavoro come fa a coniugarlo con la scrittura?
– Che intende?
– È un ingegnere con la passione per la scrittura o una scrittrice con la passione per l’ingegneria?
– Non so cosa sono, ho difficoltà a definirmi, la trovo forse una pratica oziosa. Preferisco risponderle con le parole di altri, – ed estrae dalla sua borsa un taccuino. Lo sfoglia e poi legge:
«Ci sono, nell’aria che respiriamo, i cosiddetti gas inerti. Portano curiosi nomi greci di derivazione dotta, che significano “il Nuovo”, “il Nascosto”, “l’Inoperoso”, “lo Straniero”. Sono, appunto, talmente inerti, talmente paghi della loro condizione, che non interferiscono in alcuna reazione chimica, non si combinano con alcun altro elemento, e proprio per questo motivo sono passati inosservati per secoli: solo nel 1962 un chimico di buona volontà, dopo lunghi ed ingegnosi sforzi, è riuscito a costringere lo Straniero (lo xenon) a combinarsi fugacemente con l’avidissimo, vivacissimo fluoro, e l’impresa è apparsa talmente straordinaria che gli è stato conferito il Premio Nobel. Si chiamano anche gas nobili, e qui ci sarebbe da discutere se veramente tutti i nobili siano inerti e tutti gli inerti siano nobili; si chiamano infine anche gas rari, benché uno di loro, l’argon, l’Inoperoso, sia presente nell’aria nella rispettabile proporzione dell’1 per cento: cioè venti o trenta volte più abbondante dell’anidride carbonica, senza la quale non ci sarebbe traccia di vita su questo pianeta. Il poco che so dei miei antenati li avvicina a questi gas…»
– Questo è tratto da Argon, – riprende, – il primo racconto de Il sistema periodico di Primo Levi. Ecco, se devo dire, questo è quello che vorrei passasse della mia formazione alla scrittura, trovare un collegamento fra i gas inerti e la mia famiglia, anche se mi agito anche solo a pensarlo, tanto è questa raccolta un esempio alto per me.
Restiamo in silenzio a fissare il panorama che si distende davanti a noi. Il mare continua ad agitarsi. All’orizzonte si scorgono un paio di navi. Il sole non ne vuole sapere di uscire e il cielo non vuole saperne di piovere.
Inevitabile, arriva il momento dei saluti. La chiacchierata è stata piacevole, la ringrazio più volte e le chiedo di soddisfare un’ultima curiosità:
– Qual è il dolce siciliano preferito?
– Oddio, non saprei da che parte girarmi per rispondere a questa domanda, – sorride imbarazzata. – Mi affido a Elena, e quindi i dolci dei morti, biscotti duri al miele. E poi, siccome oggi è santa Lucia, patrona di Siracusa, affidiamoci anche ad altri santi come Sant’Agata, patrona di Catania dove fanno le cassatine di ricotta, che sono dette, appunto, le minne di Sant’Agata.
Vedo sparire Veronica nell’abitacolo di una macchina e dal finestrino una mano sporge a salutare. Prima di incamminarmi verso la mia auto, ancora incuriosita dalle sue parole, googlo Norman Island.
La ricerca, finalmente, non lascia adito a dubbi. Sorridendo leggo:
Norman Island 18°19’N 64°37’W è un’isola all’estremità meridionale dell’arcipelago delle isole Vergini britanniche. Si ritiene sia stata l’ispirazione per il romanzo L’isola del Tesoro di Robert Louis Stevenson.
Francesca Gentile

