ritratto e fotografia frida Kahlo, immagine copertina racconto L'elefante e la Colomba
racconti

l’Elefante e la Colomba

Non so da dove venne quella spranga di ferro né da che parte mi trafisse, so solo che mi passò attraverso e che pensai che un pene sarebbe stato traumatico ma almeno sadicamente naturale, invece quella spranga di ferro mi ha distrutta e basta. Io sopravvissi, certo, e anche Frida, perché la vita vale molto più di questo.
Frida conobbe Diego che era ancora una bambina. Ricordo quella sera mentre si lavava e lavava me, come sorrideva ripensando alla mattina quando aveva preso l’autobus ed era andata con la scuola a vedere il grande pittore lavorare. Lei, bambina – e sapete come sono le bambine a quell’età, quando dicono le cose più assurde senza pensarci –, aveva detto a Diego che un giorno l’avrebbe sposato e che un giorno avrebbero avuto un figlio. Non è che glielo disse proprio in questi termini, forse lo diceva più a se stessa e a me, anche se noi di queste cose di sesso e amore non ci capivamo ancora niente e prendevamo tutto come se fosse un gioco. Così, quella sera, mentre Frida sorrideva lavandosi via il sudiciume dell’autobus – lo stesso che qualche anno più tardi l’avrebbe quasi uccisa –, pensava a Diego e a com’era bello, con quello sbuffo di colore che gli sporcava la guancia nemmeno fosse stato un indiano che si nascondeva fra i cespugli.
Il giorno dell’incidente Frida era seduta vicino al finestrino e io sotto la gonna prudevo e non riuscivo ad alleviare quella sensazione di scomodità. Gli occhi di Frida, che io non ho mai visto, scrutavano, oltre il finestrino opaco, tutte le strade del Messico che si stendevano come un tappeto indio. Improvvisamente l’autobus sbandò come se fosse scivolato sul ghiaccio o sulla neve. Successe tutto così velocemente che Frida non fece in tempo ad accorgersi di nulla. Io, sotto le mutande, a un certo punto mi ritrovai a sanguinare: sangue ovunque, ovunque rosso. Rosso come le notti messicane al suono della musica, rosso come il tramonto o come gli occhi delle donne che piangono d’amore. E io non ero ancora in quel periodo del mese, eppure ero sporca di sangue ovunque e avevo questa cosa che mi trafiggeva e sentivo Frida piangere stesa sul marciapiede con la gente tutta intorno, e a un certo punto vidi anche un’ombra che ci oscurava – un’ombra immensa come Diego, ma non era lui. Diego sarebbe stato più delicato. Un’ombra crudele e compassionevole che si sporse e prese la spranga tirandola fuori come dovesse togliere la lancia da un elefante ucciso, e sentii Frida gridare e urlare e l’urlo salì al cielo, alle nuvole e allo spazio:

E io – trafitta, sanguinante e morente – fui svegliata da questo grido potente e così grande che anche la Morte – colta di sorpresa mentre stava mietendo soldatini su un campo di battaglia e che di certo non si aspettava quella spranga o quel tram che aveva travolto l’autobus – fu costretta, spaventata, a fuggire via sul suo nero destriero.
Frida rimase stesa in un letto per giorni infinti, e mentre era lì immobile l’unica cosa che immaginò di fare era dipingere, e pensai che Frida amava Diego ed era quasi morta e che l’unica salvezza, soprattutto in quel momento, era l’amore. E ricordo che pensai anche che dipingere era un modo per ingannare il tempo, la morte e l’amore. È questo che fa l’arte: inganna la vita con la bellezza. Frida dipinse l’unica cosa bella che conosceva e l’unico soggetto che potesse vedere da quel letto riflesso in uno specchio. Dipinse sé stessa. Frida, quel giorno, si era aggrappata alla vita poco prima di cadere proprio come una bambina si aggrappa alla gamba della madre quando impara a camminare. Aveva solo diciotto anni – troppo pochi per morire. Sapeva quanto grande fosse la vita, e quanto preziosa e dolorosa, e nei suoi quadri e nei suoi sguardi dipinti cercava sempre di ricordarselo.
Quando poté rialzarsi li portò tutti da Diego perché li potesse giudicare, e ricordo perfettamente che la sentii dire:
– Voglio una critica seria, non un complimento per contentarmi.
E Diego rispose:
– Sono belli.
E io lo so che Frida ha cominciato a dipingere per salvarsi e non per conoscere davvero Diego, ma certo Diego univa l’arte e l’amore e lei lo amava anche per questo, e perché Diego era davvero il più grande. Io lo conobbi nell’intimità e nella pura furia animale, e il dubbio che lei lo andò a cercare non tanto per il giudizio quanto piuttosto per l’amore mi ha sempre tormentata. Mi ha sempre tormentata il dubbio che avesse scelto l’arte per salvarsi e per avere l’amore dell’uomo che amava da sempre, trasformando tutto in un’unica salvezza e in un unico amore, perché dopo quello che le era capitato voleva solo essere felice.
Fui conquistata diverse volte dal tantissimo sesso dolce e clemente che da un gigante come Diego sembrava impossibile anche solo desiderare. Era una carezza, era l’oceano che benedice le coste del Messico quando arriva la sera, era le milionarie stelle che fanno da sombrero.
Oh, Diego, quanti figli che mi avresti dato. L’utero di Frida rimase fecondato tre, quattro e altre mille volte, non me le ricordo neppure più, ma quella spranga aveva distrutto qualcosa dentro di lei e attraverso me. Mai, nemmeno una volta, trattenni quel seme che tu, gigante buonissimo, volevi piantare nel suo campo.
Oh, Diego mio, tu non ti davi mai per vinto. Eri duro come i contadini che provano e riprovano a seminare una terra che non dà frutti, e quando eri stanco ti consolavi con qualche amante, come la sua amica Tina o sua sorella Cristina. Non so se questo amore mercenario con donne legate a Frida fosse una vendetta, ma di certo era crudele e la facevi soffrire. Soffriva, soffriva tanto, e i figli che non poteva darti non erano colpa sua, ma di quella fottuta spranga.
Oh, com’era buono il sapore di Diego. Quando non c’era dovevamo consolarci e vendicarci con Isamu o con Trockij, che in quei momenti fragili e indifesi le scriveva ridicole e infantili lettere d’amore che Stalin avrebbe senz’altro trovato divertenti. E poi ci furono altri amanti di cui non ricordo i nomi e di cui non rammento i volti, ma solo i sessi duri e quell’amore senza amore. Ricordo quando una sera Diego trovò Isamu insieme a Frida e prese un revolver con l’intenzione di ammazzarlo.
Ora che ci penso, Frida ebbe molte donne come amanti. Sapeva che la vita era grande nonostante l’avesse tradita e fottuta così amaramente che ora lei voleva fottere la vita in ogni modo possibile; e fotté la vita fottendo molte donne e io la appoggiai, e provai tanto più piacere con loro che con tutti gli uomini che ebbi dentro di me. Tranne Diego: la loro è stata una storia d’amore bellissima.

La notte, però, era tragica nonostante le stelle e l’aria fresca. Frida restava sempre da sola, e anch’io diventavo di poca compagnia quando la sua mano si stancava, il dolore la perseguitava in continuazione e la morfina era l’unico vero amante che non la trattava mai male. La morfina, il brandy… La consolavano da tutta quella tristezza che un giorno divenne così insormontabile da farle scrivere:


La tristezza, per un po’, sembrò passare il giorno in cui lei e Diego si sposarono – quella tristezza bagnata da qualche lacrima qua e là che inumidiva anche i fazzoletti. Ricordo che il padre di Frida prese Diego da parte e gli disse:
– Mia figlia ha un demone, dentro. Stai attento.
(Anche se certo in realtà voleva dire: – Mia figlia ha troppa vita dentro, tanta da uccidere.)
E Diego – che era enorme, era un gigante, e come tutti i giganti delle favole non conosceva paura – rispose:
– Sì, lo so.

Alessandro Mambelli