racconti

La Divina

Apro gli occhi.
A un metro da me, un microfono. Non ne ho mai visto uno così. Forse solo in televisione in quei vecchi programmi che mi faceva guardare mia madre. Ma dal vivo mai. Ha la forma di una saponetta. Sì, sembra proprio una saponetta metallica attaccata ad un’asta che non si sa da dove viene, né dove vada a finire.
Do un’occhiata in giro. Non c’è nulla. Sono avvolta da una luce fortissima. Bianca. Come il mio nome. Mi metto alla ricerca, senza molto successo, di un qualcosa di conosciuto. Abbasso lo sguardo e scopro che sono a piedi nudi su un pavimento in legno: unica sfumatura colorata in tutto questo candore.
Strizzo gli occhi e alzo un braccio per tentare di oscurare la luce: riesco a distinguere delle sagome nere simili a sedie.
Non ho memoria di come io ci sia arrivata ma ovvio che sono in un teatro. Muovo qualche passo in avanti e quando sono a pochi centimetri dal microfono, allungo il collo e lo tocco con le labbra. È freddo. Infilo i polpastrelli tra quelle piccole scanalature. Mi incanto a guardarle: sono nere come la china. Con le dita colpisco quella superficie irregolare: ne viene fuori un suono acuto. Solo quando torna il silenzio, azzardo timidamente un “prova. sa. sa”. Sento la mia voce espandersi. Sorrido divertita e riprovo con un tono più alto.
Quando anche l’ultima a finisce di echeggiare, qualcuno, da un punto imprecisato, tossisce per farmi notare di non essere sola. Mi paralizzo.
– Allora? – sento dire.
Silenzio
– Io sto aspettando.
È un uomo. Non riconosco la sua voce. Mi sembra di scorgere una sigaretta che brucia tra delle labbra sottili incorniciate da un paio di baffi neri, ma forse è solo la mia immaginazione.
Una cosa la so però: quest’uomo sta aspettando me, o perlomeno che io faccia qualcosa per lui. Ma cosa?
– La prego, canti, – mi dice come se avesse letto i miei pensieri.
– Si, certo, – e di nuovo mi chiedo “ma cosa?”.
Titoli si rincorrono e si accavallano nella mia mente, ma non riesco a scegliere.  E come faccio poi senza nemmeno una traccia di sottofondo musicale? Non me la sono mai cavata a cappella. Ma devo farlo.
– Allora? – mi esorta.
– Ha qualche richiesta precisa? – provo a prendere tempo. – Perché ora, sono un po’ agitata, e non riesco proprio… Forse un accompagnamento strumentale, aiuterebbe.
Ed ecco che arriva il ticchettio leggero e continuo di un metronomo. Allora comincio a solfeggiare. Snocciolo note una dopo l’altra: le vedo sollevarsi dalla mia gola e prendere aria, librarsi e sparire in quel vuoto luminoso.
– Bene, – applaude. – Ora che ha scaldato la voce, si spogli.
– Come scusi? – fingo di non aver capito.
– Ha compreso benissimo, – mi fa. – Si spogli. Mi ha chiesto di aiutarla. Ricorda? La prego, si spogli.
Non mi oppongo. Mi libero del pesante maglione e tiro giù la zip della gonna. La faccio scivolare e intanto lo sento afferrare qualcosa da terra e avvicinarsi a grandi falcate verso il palco. Attendo di visualizzare il suo volto, ma tutto ciò che riesco a vedere è un oggetto ingombrante che riluce tra le sue mani. Se lo porta alla bocca e un suono grave si dilata nello spazio intorno a noi.
Si interrompe solo per dirmi:
– Via anche l’intimo, per favore.
E mentre obbediente sgancio il reggiseno e sfilo gli slip, lui suona. Suona in un modo che mi fa chiudere gli occhi e mi fa dimenticare di essere nuda senza una ragione. È un suono insistente, penetrante, che fa dimenticare. Dopo un tempo imprecisato, il suo assolo finisce.
– La prego non smetta, – sembro quasi implorare. – Suona bene la tromba.
– Sono un trombonista, – dice ridendo. – Sa qual è la differenza tra una tromba e un trombone?
E mentre lo chiede, lo sento salire gli scalini. A poco a poco riesco a mettere a fuoco la sua figura. È nudo. Alto, peloso e con la pancia sfatta da grasso e smagliature. Cerco il suo sguardo e non lo trovo. Com’è possibile che ancora non riesca a vedere il suo viso?
– La differenza è sia fisica che nel suono che produce, – continua lui intanto, – La tromba ha tre pistoni digitali per cambiare le note. Il trombone, invece, si serve di una pompa mobile, chiamata coulisse, che, con il movimento del braccio, si accorcia e si allunga.
Il suo cazzo è duro. Lungo. Grosso. E io sono bagnata.
– Le faccio una confidenza: prima di una qualsiasi prova o di un concerto cerco ispirazione e concentrazione nel sesso. E allora a turno mi scopo la violoncellista o il primo violino. Dipende. Le dico questo perché forse anche lei ha bisogno di concentrarsi in questo senso. Non crede?
Ma non lo ascolto più: afferro la sua mano e lascio che le sue dita si facciano spazio dentro di me.

Apro gli occhi.
Realizzo di essere sdraiata tra le lenzuola sgualcite del letto. La debole luce del lampione entra dalla finestra ad illuminare la penombra della stanza. Sono nuda. Non c’è più il microfono, il teatro, il trombone. Non c’è mai stato. Sul cuscino un biglietto:

Bussano alla porta, che un attimo dopo si spalanca.
– Forza tesoro, tirati su. Hanno chiesto di te.
Mi alzo lentamente e raccolgo la mia vestaglia da terra.
– Ci sarà tempo per dormire domattina. Vieni qui, dammi un bacio.
La mia maȋtresse: una donna esile e raffinata che a fine prestazione pretende sempre di essere baciata.
– Meglio che passi dalla toilette e ti dai una sciacquata. Denti e vagina. Hai un saporaccio in bocca. Ah, dimenticavo: ti aspettano nella stanza accanto.
Annuisco, aspetto che sia uscita e mi fiondo ad aprire l’armadio per assicurarmi che nessuno abbia scoperto il cassetto dove ho nascosto, seppelliti tra perizomi e condom, i miei libri di musica. Li accarezzo, me li stringo al petto e ne apro uno. A pagina 46 c’è una sua fotografia. La Divina. La vera e unica: Maria Callas.

Francesca Gentile