racconti

Io, donna, sono un uomo ricco

Apro la portiera dell’auto e non mi accorgo che la cintura di sicurezza penzola minacciosa vicino all’asfalto, pronta ad impiccare la mia sventurata caviglia. Rimango impigliata senza rendermi conto di cosa stia accadendo, e per il contraccolpo il mazzo di chiavi mi scivola dalle dita cadendo rumorosamente sull’asfalto, un metro più avanti. Nonostante questa stramba, insensata sequenza – durata meno di un secondo – resto in piedi per miracolo imprecando ad alta voce. Dal lato opposto un uomo mi sta osservando con cipiglio severo, ma non appena volgo lo sguardo verso di lui abbassa il capo, concentrando la sua attenzione sui suoi piedi, ma non abbastanza rapidamente da nascondere lo sdegno dipinto sul suo volto.
Gli leggo praticamente nel pensiero, quasi mi sembra di sentirlo: “Una bella donna che impreca? Inascoltabile, non le si addice per niente”.
Mi piacerebbe illudermi che lo sguardo che mi ha riservato sia generica disapprovazione verso un certo modo di esprimersi, ma il risentimento nei suoi occhi è inequivocabile: il problema non è l’imprecazione, ma il fatto che sia stata una donna a farlo. Immagino che lui, come molti altri, pensi che una donna sia una creatura troppo fragile, dolce e bella, incompatibile con la libertà di imprecare.
Una marea di stronzate che ho sentito ripetere costantemente nel corso della mia vita.
L’atteggiamento di quell’uomo mi fa venire voglia di imprecare di nuovo.
Raccolgo con stizza le chiavi dall’asfalto e mi dico di lasciar perdere dirigendomi verso l’ufficio con profonde falcate. Non ho voglia di iniziare male la mattinata.
Oggi è il primo giorno di giugno ed il personale della redazione che gestisco è molto rilassato: la rivista sta andando bene e con il weekend alle porte tutti pregustano il meritato riposo.
La quiete viene rotta improvvisamente a metà mattina dall’insistente suoneria del mio smartphone. Il thè freddo che sto sorseggiando quasi mi va di traverso nel realizzare che la voce che arriva dall’altro lato del telefono è quella della preside del liceo dove studia mia figlia Alessia. La donna, con voce forzatamente misurata, mi comunica che il professore di italiano ha spedito la ragazza nel suo ufficio perché a quanto pare si è rifiutata categoricamente di svolgere il tema assegnato come verifica.
«L’atteggiamento della ragazza ha avuto conseguenze negative per tutti impedendo lo svolgimento della verifica, vista l’enfasi con cui incitava le compagne a seguire la sua ribellione. Signora, non credo che ci sia bisogno di ricordarle in che periodo dell’anno ci troviamo: l’esame di maturità è alle porte. Le suggerisco caldamente di ricordare a sua figlia qual è il tipo di condotta, consona ed educata, che ci si aspetta da una ragazza della sua età».
Frastornata dalle parole della preside mi scuso per l’inconveniente, e convengo con lei che queste reazioni ribelli tipiche dell’adolescenza dovrebbero essere represse nel rispetto della comunità scolastica.
Durante la conversazione, però, un campanello di allarme suona insistentemente nella mia testa: mia figlia è una ragazza che si accende facilmente, ma sempre con educazione e solo se vengono sfiorate cause in cui crede fermamente.
Alessia non è un’attaccabrighe: in cinque anni non ha mai avuto né un richiamo, né una sospensione, né una nota. Voglio sentire la sua versione dei fatti prima di improvvisare sfuriate, per questo decido di andare a prenderla personalmente all’uscita da scuola.
Poche ore dopo sono seduta nella mia auto, parcheggiata fuori dal cancello principale dell’istituto ad osservare il fiume di studenti che si riversa nel viale dopo il suono della campana. Noto prima le amiche di Alessia, e poi lei. È in disparte con le braccia incrociate e lo sguardo arcigno. Appena mi vede si avvia a grandi passi nella mia direzione, senza salutare nessuno.
Reprimo un sorriso nel pensare alla reazione che ho avuto questa mattina con l’uomo nel parcheggio: ci somigliamo così tanto.
Uno zaino atterra sul sedile posteriore mentre Alessia, prendendo posto accanto a me, chiude lo sportello con forza.
Sospiro e metto in moto la macchina.
«Che fai, non urli? Non ti arrabbi? Non hai capito che bel casino ho fatto praticamente un attimo prima dell’esame?»
«Ho pensato di farlo, sì. Però, riflettendo bene, ho deciso di voler sentire prima la tua versione dei fatti. Cosa ti ha spinta ad un rifiuto così categorico?»
«Il titolo del tema era… boh, era uno schifo. Un… un’offesa ecco! Una discriminazione. Come fanno a non capirlo quelle sceme che hanno dato retta al prof», borbotta a labbra strette. Immagino si riferisca alle sue compagne di classe.
La osservo con la coda dell’occhio: guarda fuori e intanto si rosicchia le unghie nervosamente.
«Sentiamo, che titolo aveva il tema?»
Si gira verso di me stralunata, con la faccia di chi ancora non si spiega come sia possibile non essere rimproverata per l’accaduto.
«Prima di dirtelo, voglio ricordarti che nella mia sezione siamo tutte ragazze».
«Me lo ricordo», e intuisco dove andrà a parare la conversazione.
«Il professore», scandisce bene le sillabe, «avendo una classe di ventiquattro ragazze, ha pensato bene di assegnarci il titolo “Se io donna fossi un uomo”». Si interrompe e si gira verso di me con sguardo eloquente, per poi aggiungere come un fiume in piena: «Io non ho niente da scrivere su un tema del genere. Ma che cazzo ne so di cosa farei se fossi un uomo, neanche mi interessa. Che vuol dire “Se io donna fossi un uomo”, mamma? Dovrei essere in qualche modo diversa da quello che sono, se fossi un uomo? Quando ho detto queste cose a voce alta mi hanno guardato tutti straniti. È stato in quel momento che ho incitato tutte le ragazze a rifiutarsi di scrivere. In molte mi hanno guardata con interesse, altre come se fossi pazza. Anche il professore mi guardava in modo strano, e continuava a sorridere dicendo che sono “esagerata” e che non è un titolo discriminatorio, bensì “stimolante”. Ha detto che ci sono differenze tra essere uomo o donna, che è consapevole che crescere come ragazzo sia più semplice di crescere come ragazza, e questa cosa mi ha fatta arrabbiare ancora di più, perché lo ha detto come se fosse una cosa normale di cui parlare con leggerezza. Per me questa traccia è sessista. Ho provato a dire queste cose anche alla preside, ma evidentemente anche lei è troppo stupida per capire: persino lei mi ha dato dell’esagerata. Ha detto che il mio comportamento non mi rende una “piccola femminista” e che non le interessa se va di moda tra gli adolescenti atteggiarsi come tale, perché a scuola bisogna mantenere un certo comportamento. Ha anche insinuato che io abbia accampato in aria questa scusa per non sostenere la verifica». Alessia finisce il suo monologo appena spengo la macchina nel vialetto di casa. È talmente turbata da questa situazione che sta praticamente tremando. Ha gli occhi lucidi, ma credo che in questo momento pur di non piangere si strapperebbe i capelli dal capo.
Mia figlia è molto giovane e impulsiva e forse ha reagito in modo esagerato, come dicono loro, destando lo stupore di coetanee meno consapevoli di lei. Rimango sinceramente sbigottita dalla durezza della preside e dalla sua mancanza di empatia: in quanto donna non dovrebbe comprendere almeno in parte il gesto di mia figlia?
«Mamma ti prego dì qualcosa, questo silenzio mi uccide», mi incalza.
«So che sei una ragazza sveglia, ma non pensavo tu riuscissi a sollevare un tale polverone. Abbiamo una questione da risolvere, direi», e riaccendo la macchina.
«Dove stiamo andando? Mica a scuola, vero?» c’è una gran paura nella sua voce: è il momento di scoprire le mie carte.
«Non sono arrabbiata. Non penso che tu abbia usato una scusa per saltare la verifica. E soprattutto sono d’accordo con te». Scandisco le parole con lentezza, così che riesca ad assimilarle bene, e vedo ogni fibra del suo corpo rilassarsi a poco a poco. Così aggiungo: «Però, penso anche che avresti potuto reagire in modo più maturo, senza puntare i piedi e più adatto al contesto in cui ti trov…» non mi permette di continuare. «E come dovevo reagire, scusa? Ci ho provato a chiedere con calma di cambiare traccia ma il prof mi ha trattata come una stupida!» si accende di nuovo, molto stizzita. «Calma, calma. Intendevo che potevi essere più astuta, girare la situazione a tuo favore. Per esempio potevi scrivere il tema in modo da argomentare la tua opinione così da rispondere al professore a tono, senza finire nell’ufficio della preside. Che ne pensi se provassimo a farlo adesso?» le sorrido.
«E come faccio? Guarda che anche se mi riporti a scuola ormai la verifica è andata, mica me la faranno rifare», protesta.
«Ma non stiamo andando a scuola, non hai notato dove ho svoltato all’incrocio?»
Vedo la consapevolezza accendersi sul suo volto mentre chiede sorpresa:
«Stiamo andando al tuo ufficio?»
«Dici sempre che il mio lavoro ti affascina, che ne dici di provare a scrivere un articolo insieme a me? Anzi, che ne dici di contattare anche le tue amiche? Potremmo, per esempio, chiedere loro se ci sono delle frasi o dei luoghi comuni che creano stereotipi. Qualcosa che gli viene detto che sentono essere sbagliato. In questo modo potresti aiutare anche loro a capire la tua posizione. Io vi sosterrò aggiungendo argomentazioni più adulte, così da creare un articolo che possa essere rivolto a donne di tutte le età. Che ne dici?»
«Ma mamma, se poi la preside o il professore leggono l’articolo?» mi chiede timorosa.
«È proprio questo che mi auguro: che lo leggano! Almeno, forse, capiranno l’errore».
Quindici giugno, ultimo giorno di scuola, nonché data di uscita del nostro articolo.
Sull’onda dell’entusiasmo di alcune amiche di Alessia anche le loro madri hanno voluto condividere con noi le loro idee e in pochi giorni abbiamo raccolto tantissimi spunti.
La scorsa settimana ci siamo incontrate per un thè pomeridiano e per scrivere i punti fondamentali su cui elaborare l’articolo.
Abbiamo parlato degli stereotipi che vogliono noi donne eccessivamente emotive, poco ambiziose, docili, dedite alla famiglia e ai figli, appassionate di cucina e di storie d’amore; quegli stessi stereotipi che identificano, invece, gli uomini come creature forti, orgogliose, immuni alla sofferenza e senza paura, abbastanza dotati e ambiziosi da portare avanti una carriera brillante, così da sostenere economicamente la famiglia – accudita, ovviamente, dalle mogli.
È stato gratificante questo confronto fra donne che, senza vincolo di età, sono riuscite ad affrontare qualsiasi argomento: dal trucco ai tatuaggi, dalla tinta dei capelli al modo di vestirsi. Tutte abbiamo rivendicato la nostra libertà di essere donne in modo differente, di sentirci libere da qualsivoglia stereotipo che la società impone da tanto, troppo tempo. Ma la condizione a cui aneliamo non potrà mai esistere, d’altra parte, se non possiamo sentirci sicure e libere da sole per strada durante la notte, soprattutto a seconda di come siamo vestite, ma garantisco: nessuna di noi vorrebbe essere un uomo per sentirsi più al sicuro o per non rischiare di essere giudicata, maltrattata o abusata.
La storia è stata costellata da faticose battaglie, combattute nelle piazze e nelle mura domestiche, che hanno portato a una certa emancipazione, ma la strada da percorrere per arrivare ad una vera parità dei diritti è ancora molta lunga. Il percorso da seguire nel futuro prossimo deve essere intrapreso insieme. È importante. E bisogna farlo accanto a quegli uomini che, d’altra parte, vorrebbero indossare un tacco o mettere un rossetto sulle labbra, con la libertà di non sentirsi meno virili per questo.
La prima a dire la sua è stata Giulia, la migliore amica di Alessia, che si è detta offesa dalla frase “donna con le palle”: «Le donne con le palle non esistono: non mi servono “gli attributi” per avere un carattere forte. Non vedo come il sesso possa definire la tempra o lo spirito di una persona».
Caterina, invece, è stanca di essere chiamata “maschiaccio”per i suoi tatuaggi, i capelli corti o il suo modo di parlare.
«Continuano a ripetermi, sia uomini che donne, e questo è anche il problema, che i miei modi di fare non si addicono ad una signorina e che non mi faranno mai trovare un fidanzato o un marito. Io, invece, rivendico il mio diritto di in-fis-chiar-me-ne di essere o meno appetibile agli occhi di un uomo! Lo scopo della mia vita non è quello di piacere ad un’altra persona di sesso maschile o femminile, poco importa, io voglio piacere a me stessa e mi piaccio così come sono».
«E chi diavolo ha reso l’indossare una minigonna o uno scollo profondo un atto osceno, da poco di buono, da donna che cerca attenzioni, o che legittima avances? Non voglio educare mia figlia ad essere invisibile o mio figlio a nascondere il rossetto pur di non subire alcun tipo di violenza. Voglio invece insegnare loro il rispetto per ogni singolo individuo, e la curiosità di entrare in contatto con i pensieri e le idee di chi non è uguale a loro», ha sbottato la mamma di Giulia, una signora nota per essere molto silenziosa e pacata – facendo nascere uno sguardo fiero e sorpreso sul volto della figlia.
Un punto interessante è stato sollevato da mia sorella: da sempre si domanda perché esser donna debba essere sinonimo di volere una famiglia con tanti bambini. Lei rivendica la sua libertà di scegliere di non avere figli, di non voler imparare a cucinare, ma soprattutto rivendica il diritto di non essere considerata una donna a metà per questo.
«Nonostante io sia costantemente giudicata per queste mie scelte, non ho mai desiderato essere un uomo per avere vita più facile. Vorrei invece che la libertà di scelta fosse una cosa normale e non una cosa di cui ci si debba costantemente stupire, e per cui essere costantemente additata», ha concluso.
Le adolescenti poi hanno parlato di cosa vogliono fare dopo la scuola. C’è chi vuole fare l’università, chi cercherà lavoro, chi farà corsi professionali. Nei loro occhi si legge speranza per il futuro, paura, ambizione. Sono rimasta interdetta però dal commento di Ginevra: ha detto che in famiglia la invitano continuamente a “cercarsi un uomo ricco che possa darle sicurezza economica”.
Questa frase più di ogni altra ha acceso mia figlia Alessia come benzina sul fuoco.
«La prossima volta dì loro che non hai bisogno di un uomo ricco. Anzi, devi sottolineare che non hai proprio bisogno di un uomo. Sei abbastanza brillante, capace e determinata per realizzare i tuoi sogni e per costruire la carriera brillante che farà di te stessa “un uomo ricco”».
E così abbiamo deciso il titolo del nostro articolo:

Alessia mi ha chiesto di lasciarle la stesura della conclusione, ed io ho acconsentito. Le ultime righe recitano così:
«Io sono Alessia, sono una persona, sono un essere umano.
Io sono io, sono una donna, sono un uomo, sono il mio spirito, sono i miei pensieri, sono le mie emozioni; io sono i miei sogni, le mie ambizioni, le mie paure, la mia tempra e le mie esperienze. Io sono ciò che voglio essere e sono ciò che voglio diventare. Uomo, donna, non importa: la mia essenza non cambierebbe con il mio sesso.
Quello che invece cambia è la percezione che la società ha di me dal giorno in cui mi ha definita “donna”, ed è per questo che sono consapevole che se fossi stata un ragazzo, la mia vita sarebbe più semplice, perché libera da tutti gli stereotipi di una società a stampo patriarcale.
Io sono Alessia e non cambierei mai quello che sono. Sogno però un mondo in cui tutte le donne combattano insieme agli uomini per avere pari diritti, pari opportunità, pari libertà. Una società dove non ci siano due pesi e due misure, una società dove la domanda: “Ma tu, se fossi un uomo, cosa faresti?” sia la più insensata di tutte».

Elena Fiorentini