racconti

Storia di un finale

Spengo la sveglia.
Stropiccio gli occhi e, come tutte le mattine, mi infilo sotto la doccia a contare le ore che mi separano dal ricongiungimento con il mio adorato letto. Resto in accappatoio per un tempo che a me pare interminabile (e forse lo è) fino a quando – con un atto di estremo coraggio – inizia la mia meccanica sequela quotidiana: colazione, lavo i denti, mi vesto, mi trucco e, alla porta, indosso i tacchi. In auto ripasso le mail da inviare, le pratiche da chiudere e archiviare e i clienti da ricontattare.
Ingrano la retromarcia per parcheggiare e lo specchietto retrovisore mi rimanda l’immagine del capo che si avvia verso l’ufficio: stamattina è arrivato prima di me. Meglio così: non dovrò fingere di non averlo visto, tirare dritto e accelerare il passo per
non rischiare di incrociarlo in ascensore. 
Arrivata alla porta sbuffo, metto su un mezzo sorriso e apro. L’ambiente che si distende davanti a me è quello di tutti i giorni: persone – chi sedute, chi in piedi a chiacchierare – in un loft (stile americano) con due soli spazi chiusi: il bagno (unisex) e una stanza per il capo con tanto di targhetta placcata sulla porta che recita: “Dottor Carlo Ingenito Responsabile della società bla bla bla”. E poi in un angolino, proprio sotto la finestra, una macchinetta del caffè. Ma non una di quelle automatiche in cui ci infili i soldi, imposti il grado di amarezza – servendoti di cinque tacche a disposizione – et voilà due dita di caffè fumante in un bicchiere di plastica biodegradabile subito pronti per te. No, no. È una di quelle che funziona con le cialde o con la polvere. E qui, sul tavolino Ikea noi abbiamo tutto: compreso bicchierini mono uso, palettine (pure loro usa e getta), dietor, zucchero grezzo e raffinato. Proprio tutto. Credo che se avessimo un frigo qualcuno porterebbe pure il latte: non si sa mai venisse voglia di un macchiato.
– Oh, eccola! Ti stavamo aspettando! Sei pronta a sfornare caffè? – ride e poi aggiunge: – scherzo eh.
Il collega più anziano mi accoglie tutte le sante mattine con questa battuta e puntualmente chiude ogni sua freddura con scherzo eh. Ma so bene che non scherza eh, tant’è che ho smesso di guardarlo tutte le volte che cerca di fare il simpatico.
– Non dargli retta, – mi viene incontro Luisa, l’unica con cui io abbia realmente legato in tutti questi anni, – ho già cominciato io, – e mi da un buffetto sulla guancia. – ora lo faccio anche a te. Ah, tra una decina di minuti c’è riunione: l’ha detto il capo.
Eccolo che sbuca da dietro la sua porta. manco l’avesse chiamato. Ha la sua solita aria da arrogante perennemente incazzato. Chissà poi perché. Una volta, durante un pranzo di natale, ci disse che non sopportava nemmeno la sua gatta e che se non fosse stato per sua moglie, con cui litigava un’ora si e l’altra pure, se ne sarebbe sbarazzato più che volentieri. Non ho mai capito se alludeva alla moglie, alla gatta o a entrambe.
Lo vedo guardarsi intorno, cercare qualcuno. Me. Mi sorride e in un ghigno mi chiede:
– Allora signorina prima di cominciare, devo chiederle di fare una cosa che, a quanto pare, sa fare molto bene: il caffè.
Lo fisso. Non so che espressione abbia assunto la mia faccia – forse qualcosa tra l’incredulo e il se potessi ti spaccherei la faccia. Respiro, annuisco e mi incammino verso la finestra. Lui comincia a parlare mentre io aspetto che l’acqua si trasformi in una soluzione liquida e marrone. Lui continua a parlare mentre gli consegno il caffè e mi fa l’occhiolino (forse è un grazie?).
Dopo un tempo imprecisato la seduta è tolta e senza che io abbia compreso un decimo di quanto detto, comunico a Luisa che esco un attimo, che non sto bene e che ho bisogno di prendere un po’ d’aria. Acchiappo la mia borsa e mi precipito fuori da quel posto. Senza che me ne renda conto sto attraversando il parco dove di solito quando c’è il sole o non piove, con Luisa andiamo a pranzare. Cammino senza sapere bene dove andare. I tacchi affondano nel terriccio umido, ma non m’importa: continuo a camminare. Solo quando arrivo sotto una grande quercia, mi fermo. Sto piangendo. Non mi vedo ma so con certezza che il mascara colando, ha rigato le guance. Poi apro la bocca. La spalanco e mormoro un ah. Poi un altro e un altro ancora. Al quinto sto gridando come una dannata.
– Ora, va bene tutto ma fino ad un certo punto. Sono contenta di essere diventata una commercialista. Era quello che volevo, no? È un bel traguardo, no? Ma poi dov’è che sono arrivata? In un posto dove sono l’unica ad avere un contratto da libera professionista, dove ho investito cinque anni della mia vita a sperare in qualcosa di più concreto per giunta con l’ansia di non avere mai certezza sul mio rinnovo. E poi le tasse da pagare, le ferie praticamente inesistenti per riuscire a rientrare nelle spese. Ed io ho il coraggio di sentirmi arrivata? Ma dove? Cazzo! Dove? E lui oggi ha il barbaro coraggio di dirmi che l’unica cosa che mi riesce bene è il caffè? Di tutti i clienti che gli ho procacciato si è già dimenticato come pure si è scordato di tutti quei fottutissimi corsi di aggiornamento che fa fare solo a me (con la scusa che sono la più giovane lì dentro) e che poi devo trasformarli in vere e proprie sessioni di formazione per tutti gli altri. Ecco scopro solo oggi che in realtà il mio capo – un grandissimo pezzo di merda – paga a partita iva una barista. Riprendo fiato e lancio una serie di vaffanculo a lui e agli altri leccaculo che lavorano con me. A giorni alterni devo sopportare pure loro e le loro stupide domande: fai tardi la sera? non sei uscita? e come mai? sei giovane. alla tua età io ne facevo di cotte e di crude. ancora nessun uomo? ma come, una come te? e i figli, non ci pensi? Ma farsi un po’ gli affaracci propri no eh?!
Dovevo dare retta ai miei che sono mesi che mi dicono di guardarmi intorno.
Cos’è che sto aspettando? Il premio per la costanza, la bravura, i meriti e le lodi?
Il mio monologo all’albero – unico silenzioso ascoltatore – viene interrotto dal telefono che squilla: è Luisa.
– Forse è il caso che tu vada a casa: non ha molto senso agitarsi davanti a una quercia.
– E tu come fai a …
Già: dall’ultimo piano si vede tutto il parco.
– Che ti dico in continuazione? Lascia stare, non prendertela troppo. Mi sa che a ‘sto giro non ha funzionato. – faccio per replicare, ma non me ne dà il tempo: – Torna a casa. Riposati un po’, ne hai bisogno. Ti segno le ferie fino a lunedì prossimo, ok? Chiamami e fammi sapere come va.
Sto per dirle che no, sto rientrando ma l’ennesimo vaffanculo riecheggia nella testa. No, non rivolto a lei – povera, mia adorata Luisa – ma al dottor Carlo Ingenito di ‘sta minchia.
Con il dorso della mano asciugo le lacrime e mi avvio alla macchina. In pochissimo tempo sono di nuovo a casa a sfilarmi le scarpe e ad accasciarmi sul divano. Crollo in un sonno pesante e quando mi risveglio fatico a orientarmi nello spazio e nel tempo. Poi pian piano tutto si schiarisce. Do un’occhiata all’orologio: segna le 17.00. Lo stomaco brontola: ho saltato il pranzo. Apro il frigo e trovo un deserto, apro la dispensa e trovo un altro sahara.
Addento una mela: unica cosa commestibile rimasta nel cesto della frutta. Mentre mastico faccio su e giù per la casa: devo decidermi a impiegare in qualche modo questi giorni che ho a disposizione. Dai miei, per carità! Non ho voglia di te l’avevamo detto ripetuti a cadenza regolare seguiti da muoviti a cercare altro che hai un mutuo da pagare e dover spiegare loro che non ho mica perso il lavoro. No, niente ansia. Potrei sentire le mie amiche. Giada e Fabiana sono sicuramente a lavoro ma Laura è a casa dopo quella brutta mastite. Forse però, non è il caso di impelagarmi tra pannolini e pappe.
Mi soffermo a guardare la mia immagine riflessa nello specchio: sono irriconoscibile con quegli occhi gonfi e neri. Così all’improvviso, mentre mi risciacquo il viso, ho il lampo di genio. Comincio ad aprire cassettoni, armadi e beauty case e infilo, dentro un piccolo trolley ricacciato dal ripostiglio, tutto lo stretto necessario. Sprango la porta. Accendo l’autoradio e prendo l’autostrada. Voglio fare un viaggio da sola. Non so ancora dove: ho deciso di lasciarmi guidare dall’intuito o dal fato. In realtà – dopo neanche un paio d’ore – sono la stanchezza, la noia e la fame che mi fanno sterzare alla prima uscita.
Di colpo mi sembra di essere piombata nel medioevo: sono circondata da pochi palazzi moderni e tante case in mattone, vie strette e strade acciottolate. È come nel film Non ci resta che piangere. Decido quindi di cercare una sistemazione per la notte e ripartire l’indomani per un’altra destinazione. Nemmeno un centinaio di metri dopo mi si palesa un hotel tre stelle con tanto di garage convenzionato. Mi assicuro quindi che ci sia una stanza libera.
– Certo signò, chi vuoi che ci sia in questo buco di culo sperduto nel nulla. Prego un documento così posso registrarla per il check-in.
La receptionist avrà si e no vent’anni ma pare una battona della tangenziale con quelle unghie finte sulle quali è riprodotta La notte stellata.
– Fighe ve’? – si è accorta che le sto fissando – A me mi piace troppo Van Gogh. Pensi signò che il mese scorso mi son fatta fare La camera gialla. Il letto, alla ragazza che me l’ha fatto, la nailartist – e scandisce le parole senza alcuna pronuncia inglese – me lo sono fatto dipingere sul dito medio così quanno mi chiedevano dove stava, io glielo facevo vedè – e scoppia a ridere.
Il suo alito è una ventata di fumo e birra. Tossisco per mascherare un conato di vomito, mi limito ad accennare un sorriso e chiedo a che ora servono la cena e se è possibile riservare un tavolo. Chiama in sala per la mia prenotazione. Poi mi lascia tutte le informazioni e mentre aspetto che le porte dell’ascensore si richiudano dietro di me, sento un sonoro ts seguito da: e fattela ‘na risata ogni tanto.
E a quel punto – tra il primo e il secondo piano – rido. Rido fin quasi a lacrimare. Penso a quanto sono brutte le sue unghie e rido. Penso a quanto sono stata snob con lei senza alcuna ragione e rido. E continuo a ridere pensando che fino a nemmeno dodici ore prima, stavo piangendo a dirotto. Sono matta, l’ho sempre sospettato. Ma chi se ne frega?
Il giorno dopo non riparto e decido di dare una chance a questo piccolo borgo antico.
Durante la colazione – forse per farmi perdonare qualcosa – simpatizzo con Nadia, la receptionist, che, finito il suo turno, si offre di farmi da guida turistica. Così tra i resti di un antico anfiteatro romano, il campanile secolare di un monastero ormai andato distrutto e il duomo con le due cripte di epoca bizantina, mi racconta di lei.
– E questo è tutto – mi dice quando siamo sedute al tavolino nel bar dell’unica piazza – anche perché ho solo ventidue anni e ho finito le cose da farti vedere.
Lei ordina una birra (ed è solo mezzogiorno), io un caffè.
– Però in questi giorni ci sono due eventi che potrebbero interessarti. Li organizza una mia amica. Che c’hai ‘na penna che te li scrivo?
Prende dalla sua borsa di tela un depliant e sul retro immacolato segna:

Sottolinea i titoli tre volte e mi consegna il foglio. Ha usato lo stampatello maiuscolo e ha messo i puntini sulle i. Sto per dirle che in realtà non ci vanno ma mi blocco: ha appena ruttato. Poi dice:
– Io e Ivan eravamo fidanzati. C’ho perso la verginità con quella merda a tredici anni. Mo’ che è diventato uno scrittore manco mi saluta più. Valla a capì la gente che si monta la testa conniente. – Si alza, paga il conto e aggiunge: – Allora avviso la collega che il check-out lo fai domenica mattina.
Annuisco. È una tipa in gamba, un po’ cafona ma è a posto. Mi alzo anche io e chiedo se nelle vicinanze c’è una libreria. Mi dicono che sì, c’è – è proprio nella strada parallela – ma ha pochi libri e che – forse – faccio meglio ad andare in biblioteca – che è sempre nella stessa via parallela, qualche numero civico più giù.
Mentre mi incammino mi rendo conto che non leggo un libro da non so quanto tempo e subito mi riprometto di annotarla tra i buoni propositi per la mia prossima nuova vita. È buffo, penso: ogni volta che vivo esperienze nuove o incontro realtà così diverse dalla mia (ormai sono rare queste volte), finisco sempre per voler cambiare qualcosa. L’enorme locandina sulla presentazione di stasera, fuori dalla biblioteca, mi distoglie dal chiedermi se davvero ho mai cambiato qualcosa nella mia vita.
Il bibliotecario mi accoglie entusiasta indicandomi da subito un tavolino dove sono poggiate le copie del romanzo di Ivan. Circa due secondi dopo, capisco che non sarà facile avere una normale conversazione con un logorroico impenitente privo di qualsivoglia interesse nell’ascoltare l’altro. Mi informa che: posso acquistare il libro di Giommi direttamente da loro perché lui tanto è anche il proprietario della libreria che c’è in questa via. se sono arrivata dalla piazza sicuramente ci sono passata davanti. ah sì, certo sono venuta per questo: prendere in prestito un libro. ma devo tesserarmi lì da loro. ecco il foglio per compilare tutti i dati. ah, ho un mese a disposizione per restituire il libro con una sola proroga di quindici giorni e ogni settimana riceverò la newsletter con tutte le novità. ah, la biblioteca ha un giardino, un piccolo bar per sgranocchiare qualcosa e chiude alle 19. Poi riapre alle 21 per l’evento di Ivan che è un suo amico da quando andavano alle elementari. ah, si certo il libro, che coincidenza è quello del gruppo di lettura. ma no, non è una coincidenza.
Cerco di arginare quel fiume in piena chiedendo dove si trovi il bagno. Quando esco il bibliotecario sembra essersi dimenticato di me: ha il naso tra le pagine di un giornale. Sollevata mi rifugio su una panchina all’ombra di un melo a leggere Genovesi.
Così fino alla chiusura.
Mentre ceno, al ristorante di fronte, vedo che si danno un gran da fare apparecchiando un’infinità di sedie: forse prevedono il pienone. Nadia poco dopo mi raggiunge e prende posto accanto a me. Si sbraccia per richiamare l’attenzione del cameriere: ordina un cheese cake ai frutti di bosco (e stavolta pago io).
Finalmente l’evento tanto atteso ha inizio: Ivan sembra uno alla mano e il suo romanzo interessante. A fine serata mi decido a mettermi in fila per la dedica. Nel frattempo cerco nella borsa il cellulare che, per tutta la durata della presentazione, non ha smesso di vibrare. Assieme al telefono tiro fuori anche il depliant con, dietro, gli appunti scritti dalla mia nuova giovane amica receptionist.
In un istante tutto diventa immobile e silenzioso: fisso incantata la stampa del volantino. Tengono dei provini domenica mattina: stanno cercando un’attrice per un riadattamento teatrale di Dirty Dancing finanziato da una grande compagnia teatrale. Tengono dei provini a due passi da casa mia ed io fino ad allora, a due ore di strada dalla città in cui vivo, non mi sono accorta di niente. Tengono dei provini per nessuno mette Baby in angolo, il mio film preferito, che conosco quasi a memoria, ed io non ne so niente.
All’improvviso non m’importa più di Ivan, della dedica e del gruppo di lettura. Che c’entro io con tutto questo?! All’improvviso tutto ciò che importa è il provino. Devo farlo. Quanto meno tentarlo. Questo è il cambiamento. Questo è il mio mondo: il palco, il sipario, l’occhio di bue, i dietro le quinte, il pubblico che vocia prima e dopo lo spettacolo, il merdamerdamerdaprima della prima.
Sono tutte cazzate, devi puntare a un lavoro vero. Loro, i miei, non ci hanno mai creduto in me, nel mio talento. E alla fine ho mollato. No, certo non voglio attribuire loro delle colpe che non hanno, per carità. La colpa è solo mia che ho rinunciato. Ora però, devo farlo.
– Devo farlo! – ripeto ad alta voce senza accorgermene.
– Cosa devi fare? – chiede Nadia un po’ perplessa.
– Andare in bagno, – fingo, di nuovo, di non sentirmi bene e di voler tornare subito in albergo.
– Vedrai che dopo aver cagato, starai meglio. Altrimenti chiama in reception: il turno di stasera lo copre uno studente al terzo anno di medicina. È bravo. – e mi fa l’occhiolino.
Mentre imbocco la strada del ritorno, mi ricordo del telefono: Luisa ha provato a chiamarmi tre volte. Avrei dovuto farle almeno una telefonata per tranquillizzarla. Non faccio in tempo a richiamarla che mi arriva un suo messaggio: Ma che fine hai fatto? Comunque ho una super notizia per te: sto preparando il tuo contratto a tempo indeterminato!!! Firmi settimana prossima. Ce l’hai fatta!!! Goditi questi ultimi giorni, poi ti racconto. un abbraccio, L.
Di nuovo tutto intorno a me (e dentro me) si blocca, si inceppa. Cosa fare? Il concreto o l’incerto? Il vecchio o il cambiamento?
– Non è un buon modo per finire un racconto.
– Mi hai spaventato. Ma da dove sei sbucata?
– Dalla cucina dove ti sto aspettando per la cena: ti ho chiamato già tre volte.
– Hai ragione, scusa amore! Mi sto perdendo dietro al finale.
– Quando dovresti consegnare?
– Tra due giorni.
– E cos’è che non ti torna?
– Lei. La protagonista.
– Ah sì! La tipa senza un nome e che vive in una città anonima!
– Ma che c’entra sono particolari trascurabili. Quel che conta è la sua personalità che è forte, a tratti altalenante ma insomma lei c’è.
– E allora non dovresti avere problemi a trovarlo ‘sto finale.
– E invece no! Guarda qua, guarda i miei appunti. Ho tirato giù tutte le possibili conclusioni esistenti: da quelle reali e plausibili a quelle prive di senso e inverosimili: non supera il provino e le propongono di fare la ragazza che porta il caffè al regista.
– Oh, mamma! Ma siamo sicuri che tu non sia un sadico?
– Massì. Potrebbe essere, perché no. Nella scrittura bisogna osare, spingersi oltre. Lei rinuncia al provino e l’indeterminato per una serie di motivi x viene ceduto ad una nipote del capo.
– Questo, forse è troppo però. No, non ci siamo!
– Lo so: te l’ho detto!
– Secondo me stai perdendo il punto, non il finale.
– E quale sarebbe?
– Il punto è che questa storia è reale, vera. Non mi guardare con quella faccia da ebete. Intendo dire che chiunque potrebbe vivere una situazione simile, cioè di ritrovarsi costretto ad un bivio. La gente rischia ogni giorno e a nessuno è dato avere un briciolo di garanzia sull’esito.
– Esatto. Quindi? Stai suggerendo di optare per la scelta “giusta”? No! Troppo banale.
– Quindi, marito mio adorato, ti sto dicendo che se la tua lei c’è, come tu sostieni, c’è anche il finale. Non si tratta di giusto o sbagliato. Si tratta di lei.
– Mmm. Già. Lei. Forse hai ragione: sarà meglio che faccia circolare un po’ di zuccheri nel sangue.
– Vedi che cominci a ragionare? Ah, prima che me ne scordi! Domani sera non mi aspettare a casa: ho le prove in teatro.