
Meknès, Marocco
aprile 2011
Quando sono entrata nella mia stanza marocchina per la prima volta, non ho pensato che fosse piccola o sporca. In realtà era piccola, e sporca, non aveva l’armadio e non c’era il letto. Ho pensato a Firenze, alla mia ultima serata fuori, ai tavolini del bar e alle persone nuove che non avevo mai visto prima. Ho pensato che da quando ero partita avevo sempre i capelli sporchi, che mangiavo sempre senza avere fame, e che erano passati dieci giorni da quando ero arrivata a Meknès. Dieci giorni. Sono tanti dieci giorni. Chissà cosa fanno gli altri a Firenze adesso.
Ho poggiato lo zaino e ho realizzato che la sorella di Boshra, quella grassa e incappucciata, mi aveva rovinato il poster nuovo con il planisfero sopra tenendolo stretto nella mano sinistra per darmi una mano e accompagnarmi a casa. Il planisfero. I paesi del mondo. Tutte le cose del mondo e il loro nome scritto sopra, in arabo. Ho pensato questo, per due secondi, e ho lasciato che lo zaino mi cadesse dalle spalle scivolando sul braccio di colpo e cadesse a terra, sul tappeto, in mezzo alla stanza. Non era il tappeto, al centro della stanza, ma lo zaino e me, stanchissima, e il tappeto intorno. Su tutto il suolo, tutto il pavimento, come una moquette spessa che protegge la terra quando cammina l’uomo. Tutte le stanze marocchine ce l’hanno. Ora lo so ma in quel momento non lo sapevo e non ho pensato niente di tutto questo. Solo le scarpe mi hanno preoccupato, cazzo, non mi sono tolta le scarpe prima di entrare, e sono stanca, stanchissima, ho i capelli sporchi, il computer è nello zaino, lo zaino è caduto e il computer è senza custodia.
“Bgiti l-izor?”
Boshra mi ha parlato in marocchino la prima volta che è entrata nella mia stanza, la sera che quella stanza è diventata mia ed io ero al centro del tappeto. Non c’era il letto, nella mia stanza, ma tre divani, stretti e lunghi, attaccati alle pareti. Tre divani, dodici cuscini e un tappeto, in mezzo, grande quanto il pavimento. Sono tutte così, le stanze in Marocco. Le pareti racchiudono lo spazio, lo spazio è protetto dalle pareti e le pareti sono protette dai divani. Lunghi divani, lunghi e stretti, lunghi e kitsch. Arabeschi d’oro, cuscini rosa e teli blu. Divani kitsch pieni di cuscini, cuscini durissimi e ricamati, sopra i quali si riposano gli ospiti quando raccontano la loro vita e bevono thè. Al mu’aridiin. Gli invitati. I passanti che ogni giorno offrono il loro tempo al padrone di casa, come omaggio e occasione per ringraziare Dio. Ulhamdullilah. Rendiamo grazie a Dio. Il tempo non ha meno importanza, in Nord Africa. È solo ancora proprietà di Dio, e non degli uomini.
“Tu veux les draps?”
Boshra ha riformulato la domanda, in francese. Mi ha osservato dall’alto per tre secondi, non ha capito nulla, ha pensato. Mi ha scrutato seria, immobile, ha studiato il mio sguardo stanco e stupito, lo sguardo di chi non sta capendo. L’arabo, è troppo difficile, non lo imparerò mai. Vuoi le lenzuola, mi ha detto. Sì, vuoi le lenzuola, ha detto così.
Boshra è severa. Alta, giovane e grassa, come tutte le mogli in Marocco. “C’è un momento in cui il marito bussa alla porta e la donna in Marocco non esiste più. Esiste, sì, ma per il marito, per i figli, per gli invitati, esiste per stare in cucina, preparare il thè, andare a lavoro. Le donne marocchine lavorano, non si vive con un solo stipendio. È così, la nostra vita. Scorre, fino alla fine. E noi non siamo come voi. Non conosciamo niente di diverso. Per questo non proviamo invidia, e non cambiamo”. Me lo avrebbe detto in seguito, Boshra, qualche settimana dopo, a tavola, dopo pranzo. “Mi fa piacere che sei qui, Enrica. I miei figli mangiano in fretta, mio marito si riposa. Tu invece resti sempre qui, con me, e parli”.
“Tu veux les draps?”
Boshra mi studia seria con i suoi enormi occhi a mandorla, neri. È senza velo in casa, e quella sera portava una coda lenta, da ragazzina, come la mia. Qualche capello bianco, pochi, ha 36 anni. Il corpo andato di una donna matura, prossima all’obesità, e gli occhi e la pelle di una ragazza giovane. Un pigiama ruvido, bianco e sporco, che copre male un seno enorme e una pancia obesa. Sotto la jellaba, il vestito tradizionale, la donna marocchina porta sempre il pigiama, anche quando è fuori. Si cambia poco. Sotto l’abito lungo e ricamato, sotto i colori accesi e gli arabeschi kitsch, trascina la sua vita di casa, anche dentro al suq. Tra la folla, il cibo avariato, il banco del pesce e la gente che spintona, sotto il velo colorato e la jellaba sgargiante, c’è la sua vita di sempre e la sua sottoveste ruvida, e gialla, che non cambia mai.
“Aindi had, mashi moushkil”. Ho questo, non c’è problema.
Ho mostrato a Boshra il sacco a pelo, compatto, nella sua piccola sacca di tela blu. Lei mi ha guardato, non ha sorriso. Una grinza impercettibile le ha stretto le sopracciglia. Un attimo, un secondo, poi è scomparsa.
“Uakha”. Va bene.
“Enri, lascialo qui”, la mia amica Nadia indica qualcosa nella sua stanza. Siamo nella sua casa nel centro di Meknès, studiamo arabo.
“Enri, lascialo qui!”
“Cosa?”
“Il sacco a pelo. Enri, mi ascolti? Forza, muoviti, lascialo qui così quando vuoi scappi da Boshra e dormi da me”
“Quando voglio?”
“Sì, quando vuoi. Quando scappi dal cibo di quella donna, ché stai diventando quadrata”.
E ride. Nadia, la mia amica Nadia. “Nadia Paola Sampong”. L’ho conosciuta su un foglio all’università, a Venezia, tre mesi prima di partire per il Marocco. Una lista di nomi, quasi tutti conosciuti, ed uno che suona straniero e che non conosco. Siamo diventate amiche in Marocco. Non eravamo amiche prima, non lo siamo state dopo. Solo a Meknès, non so perché.
“Lascialo qui, il sacco a pelo”, e indica un rettangolo di coperte polverose, una sull’altra, dove avrei dormito ogni tanto, spesso. Due, tre volte a settimana, tutte le volte che, dopo le lezioni di arabo, il tempo sarebbe passato, lentamente, fino a farsi tardi. Le dieci, le undici, tardi. Troppo tardi per una famiglia marocchina e una madre che alle sei si alza, prepara la colazione e aspetta che arrivino le otto e che la giornata dei propri figli cominci.
Ride, Nadia. Abbassa la testa, alza le sopracciglia. Mostra i suoi denti grandi, bianchissimi, le sue labbra carnose e mulatte, da donna nera.
“Non vedo nulla, Nadiuzza, non c’è luce”, c’è solo una lampadina, nella sua stanza, un’ampolla gialla sopra un tavolino basso pieno di cose piccole e inutili.
“Che belle che sono, ma dove le trovi?”
“Ma che ne so, ovunque”
“E quante cose ti sei portata?”
Tantissime. Si è portata tantissime cose, Nadia, tante piccole cose belle con cui decorare le giornate come se fossimo a casa, anche in Marocco.
“Ana min Talian, ualakin ualidii min Ghana”, sono italiana, ma i miei genitori sono ghanesi.
“Ma come mi guarda questo? Enri, rassegniamoci, i marocchini non capiscono il nostro arabo”.
Ride, Nadia, abbassa la testa, solleva le sopracciglia. Ti guarda negli occhi ma dal basso, la testa tra le spalle e lo sguardo verso l’alto. È bassina, bassissima. Sorride, contiene il suo sarcasmo, l’ironia saggia di chi prende in giro ma senza ostilità.
“Ana min Talian, ualakin ualidii min Ghana”.
“Sei sicura di partire, Sampong?” La professoressa la guarda seria. “Una donna, e nera. È forte, il razzismo, in Nord Africa. Si è più cattivi con chi ci è vicino”
“Grazie, lo so, l’ho sempre saputo. Ed è proprio per questo che voglio partire”.
Nadia, la mia amica Nadia. Non ha avuto paura del razzismo quando è arrivata.
“Hai notato qualcosa di diverso Nadiuzza?
“No, come a casa a Vicenza, niente di più”.
Ti sbagli, Nadia, non è vero. E non ho il coraggio di dirtelo.
Non ho il coraggio di dirti che nella casa di Boshra non potrai mai entrare. Boshra ti teme. Perché sei donna, e nera, e porti sfortuna.
“Aindi had, mashi moushkil”. Ho questo, non c’è problema
“Uakha”. Va bene.
Boshra mi risponde lenta, scandendo le sillabe. Le trascina tra la lingua e il palato, con fatica e disprezzo. Mi sono alzata e, ai piedi del divano, accanto alla porta, siamo rimaste una di fronte all’altra, per qualche minuto. Io, con i capelli sporchi e lo sguardo stanco e lei, due ciuffi sulla fronte e una coda leggera, che mi guarda fissa con gli occhi severi e gonfi della sera tardi. È più alta di me, ho pensato, no, è alta uguale. È solo più grassa, e autoritaria, per questo sembra alta, e importante.
“Uakha, Enrica. Lila sa’ida”. Va bene, Enrica. Buona notte.
Lo ha ripetuto due volte. Alla seconda, ha sistemato un ciuffo nero dietro la fronte, dentro l’elastico, e ha lasciato le lenzuola pulite ai piedi del divano. Mi ha guardato affaticata ancora una volta e ha fatto un passo verso la porta. Si è voltata. E, dandomi le spalle, l’ha chiusa facendo rumore, dietro di sé.
L’avevo offesa, quella sera. La sera in cui quella stanza diventava mia e i due figli di Boshra passavano al lato del letto dei genitori, tra il muro e il matrimoniale, sopra un materasso basso e ruvido di coperte vecchie, una sull’altra, piegate in due. L’avevo offesa, perché mostrando il mio sacco a pelo avevo rifiutato le sue lenzuola pulite e senza volerlo avevo segnato, ai suoi occhi, una distanza precisa tra me e lei.
È la più triste delle incomprensioni, il tornaconto più amaro dei disequilibri sottesi alle migrazioni globali. La sfida rabbiosa e l’impegno cieco di coloro che restano nel difendere l’immagine di chi se ne è andato. Di chi ha deciso di invertire un equilibrio ingiusto e di disegnare un destino diverso per i propri cari. Di chi ha abbandonato la sponda arida e povera del Mediterraneo e ha tentato una strada nuova e un futuro a Nord.
Chi resta osserva da lontano il loro fallimento. Vede il bacino del Mediterraneo farsi sempre più grande, i destini delle due sponde sempre più lontani. Vede i propri cari fallire, aggrapparsi ad un’Europa che li incattivisce e li respinge. Li vede soccombere e, man mano, farsi sempre più stretto il nodo dei loro destini nel laccio della morsa globale. Smettono di piangerli, smettono di aspettarli. Alcuni si fanno complici di un’Europa cattiva, iniziando a invidiarne i costumi. Altri, invece, ne temono il disprezzo, difendono rabbiosamente la propria terra, fino all’esasperazione. E così come aprono allo straniero la loro casa come a un proprio fratello, secondo i rituali sacri e antichi dell’accoglienza dei popoli del deserto, così serrano le proprie porte all’improvviso non appena li ferisce la lama dell’arroganza e del disdegno anche quando non esiste, ed è solo un riflesso delle proprie paure.
Boshra mi ha insegnato il senso profondo e sacro dell’ospitalità. Mi ha insegnato che il sacrificio e la disciplina possono anche impreziosire l’esistenza, non solo appesantirla. Che la felicità può passare anche attraverso una famiglia rigida, il cui codice culturale congela le inclinazioni in ruoli fissi, e statici. Nei tre mesi in cui ho vissuto con lei, la sua apertura nei miei confronti è stata tale che adesso la sento qui, non sono lontana. È con me. Non l’ho lasciata in un quartiere di periferia di una piccola città del Marocco, nella terra arida e povera del deserto.
Lei è qui, la sento ridere e pregare. Portare in tavola il suo piatto preferito e aspettare i complimenti, come una bambina. Sgridare i figli perché non vogliono mangiare e poi piangere, da sola, per averli picchiati. Nei quattro mesi che abbiamo passato insieme Boshra è entrata nella mia storia, di cui anche lei, con le sue le sue preghiere e le sue ingenuità, mi ha indicato la strada. Ma la sera in cui ci siamo incontrate, la sera in cui quella stanza è diventata mia e io ero al centro della stanza, in mezzo, e il tappeto intorno, è bastato un sacco a pelo blu per allontanarci. È bastato rifiutare delle lenzuola pulite perché si insinuasse in lei il sospetto di un disprezzo e di uno sdegno, che non c’era.
Sono rimasta qualche minuto in piedi, di fronte al divano. Ho pensato allo zaino, in mezzo al tappeto, e al computer, che è nello zaino, è caduto ed è senza custodia. E all’arabo, al marocchino, che è troppo difficile, non posso impararlo, non ce la farò mai. Ho pensato tutto questo e che ero stanca, stanchissima e volevo dormire.
Mi sono tolta le scarpe e ho guardato le lenzuola, una sull’altra, di vari colori, ai piedi del divano. Le ho guardate e ho visto una “B”, ricamata, sul terzo, un lenzuolo rosa.
Prenderò questo, ho pensato. Fa troppo caldo per il sacco a pelo.
Enrica Fei


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