racconti

L’asciuga pensieri

All’orizzonte il sole spunta tra due nuvolette bianche, e il suo tepore mi carezza le cuciture. Sono steso in giardino ad asciugarmi. Devo proprio ammetterlo: con la pensione la mia vita ha preso una piega particolarmente rilassante. Perlopiù me ne sto sdraiato in una cassettiera della mia nuova casa, un’abitazione vera e propria, dove mi utilizzano tanto raramente che tra una centrifuga e l’altra sento sempre l’aroma dell’ammorbidente sulla stoffa.
Prima della pensione ho avuto una vita davvero movimentata. Ero uno in carriera io: vivevo in un palazzetto dello sport, quasi fossi un vero veterano basket! No che non ero (e non sono) un giocatore – sono sempre stato troppo delicato per poter anche solo palleggiare – tuttavia ero uno stretto collaboratore della squadra under diciotto. Quello che facevo era piuttosto semplice: accarezzavo guance, frizionavo teste, tamponavo colli umidi: insomma, la normale amministrazione per un asciugamano di un set sportivo.
«Buonasera gentile coinquilino! Che storia ci raccontate oggi?» il lenzuolo appeso a pochi metri da me mi interpella con ardore. Come tutti i miei nuovi compagni di bucato, si è abituato alle storie che racconto dopo la lavatrice.
«Non vedo l’ora che iniziate! L’ultima volta avevate promesso la storia della finale, e sono almeno tre settimane che Voi ed io non ci troviamo stesi assieme, impazzisco di curiosità.» gli fa eco un cencio per i piatti.
«Ne siete sicuri?», chiedo, per creare un po’ di suspense, «Ho altre storie sensazionali in serbo.»
«Non Vi fate pregare», dice il lenzuolo, «sappiamo benissimo che è la storia migliore! E Vi prego, i dettagli del vostro dono, non ve ne dimenticate!»
In effetti ho un dono molto interessante: quando un essere umano mi utilizza, sono in grado di leggere le emozioni che lo pervadono. I miei compagni di bucato, da sempre, si intrattengono con storie che parlano delle avventure umane, ma da quando mi hanno conosciuto, la loro ora di intrattenimento narrativo ha acquisito un altro sapore: grazie al mio particolare dono racconto loro dei veri e propri cult. in realtà la sfera emotiva di tutti gli oggetti non solo quelli di stoffa. Noi ti suggeriremmo questo anche per agganciarti meglio alla frase precedente:
Comprensibilissimo d’altronde! Eccezion fatta per me e il mio dono, tutti gli oggetti inanimati sono ben coscienti di essere privi di emozioni e sensazioni e per questo ancor più follemente attratti e incuriositi da qualcosa che non hanno mai provato.
«Va bene, va bene. Non me ne dimenticherò. Siete pronti?»
Un filo di vento scuote tutta la biancheria appesa che sembra annuire all’unisono, così inizio:
«Era un sabato mattina. Quando la squadra iniziò il riscaldamento io ero ancora ben ripiegato nel borsone. Fu Luca, il capitano, ad estrarmi. Mentre mi strofinava delicatamente per asciugarsi le mani, discuteva con il mister a proposito di chi sarebbero stati i cinque ad aprire la partita.»
«Ecco, Luca, mi piace il nome, cominciate da lui! Che tipo era questo giovane uomo?» mi interrompe il lenzuolo.
«Dunque. Luca era alto, spalle larghe, sguardo fiero e prossimo alla maggiore età. Un gran giocatore, molto maturo e diligente. Lo conoscevo da quando era ragazzino, e garantisco che non lo vidi mai saltare un allenamento, non mancò mai ad una partita.
Il giorno della finale, mentre ero nelle sue mani, il mister gli fece un complimento per il suo impeccabile comportamento da capitano. Lui reagì con un’apparente noncuranza e modestia, come ad intendere che facesse solo il suo dovere. Scrutando dentro di lui, dietro a quello sguardo serio, misurato e retto, sentivo che c’era un ragazzo molto emotivo, non troppo sicuro di sé, che ancora non aveva capito né il suo valore né quanto l’intera squadra lo ammirasse e rispettasse.»
«Ditemi, com’è possibile che una persona appaia in un modo e sia in un altro?» mi domanda una camicia con profondo interesse e disappunto.
«Gli uomini sono più complessi di noi tutti. Se non avesse avuto timori, Luca non avrebbe mai raggiunto un livello di gioco tanto eccellente: voleva dimostrare di meritare il ruolo di capitano, voleva dimostrare di essere coraggioso nonostante le sue fragilità. Per questo si impegnava sempre così tanto negli allenamenti e durante la partita. Sì, un vero caparbio.
Insieme a Luca anche Nicholas e Lorenzo aprirono la partita. Eccovi un esempio di carattere molto diverso: erano due scavezzacolli, adolescenti ribelli, estremamente simpatici, e parlavano in un modo che mi faceva rimpiangere di non avere una bocca per ridere. Quando poco prima della partita Luca gli richiamò dal campo dove si stavano riscaldando, Nicholas esordì così:
“Oh Lù, c’hai fatto chiamà? Dà qua che gocciolo.”, e mi strattonò dalle mani di Luca per poi aggiungere:
“Oh! Ma che caldo fa raga?”.
“Ormai è quasi estate zio.” lo canzonò Lorenzo.
Quando Luca gli invitò a sedersi e concentrarsi per la partita imminente, si scambiarono un impercettibile gesto di scherno che non mi sfuggì, dato che Nicholas mi stava consegnando a Lorenzo, così mi accorsi che stava pensando:
“Che devo rilassà? La mente? Quando parla Luca, a volte mi par noioso come il mister. Speriamo di diverticci oggi, un vedo l’ora di fa l’culo a quell’altra squadra.”
Per poi concentrarsi sulle tribune:
“Ullallà, guarda la tipa… dev’esse la sorella del Birgi. Mica male. Se mi becca che la guardo sta a vedè mi tira ne i’ canestro al posto della palla”.
I due erano talmente simili che oltre a parlare nello stesso modo, ragionavano nello stesso modo e sembrava che niente li scalfisse emotivamente.
Gli uomini utilizzano tante metafore, sapete? Per esempio, di loro si sarebbe potuto dire che se anche fosse crollato un grattacielo, si sarebbero limitati a sorridere mentre si spostavano un po’ più in là.
Non erano giocatori dalla tecnica eccellente, ma erano dotati di una resistenza ed un’agilità fuori dal comune per essere così alti; questo, unito alla loro serenità e voglia di divertirsi, garantiva loro di segnare sempre la maggior parte dei canestri. A loro favore giocava anche il fatto che, nonostante l’indole ribelle, erano rispettosi nei confronti dell’autorità sia nei confronti del mister che in quelli di Luca, il loro capitano.»
«Strani anche questi due. Ma visto delle tende ribelli portare rispetto a chicchessia, dovreste essere Voi ad insegnar loro le buone maniere.» afferma uno degli stracci per i piatti.
«Temo che le tende siano irrecuperabili. Però se volete, posso parlarvi di Leonardo, un altro tipetto particolare. Anche lui giocò in finale, e agli allenamenti faceva spesso combriccola con Nicholas e Lorenzo.
Leo – lo chiamavano tutti così – era visto dai compagni di squadra come un tipo sorridente, silenzioso, semplice, anche se un po’ teso. Io so bene che c’era altro dentro lui: la prima volta che mi afferrò venni sommerso da pensieri sconnessi, tanta paura e una smisurata sofferenza. La sua mente era sempre inquieta: scoprii che aveva una famiglia problematica e frammentata, mentre a scuola era mal visto ed evitato, perché manifestava attacchi incontrollabili di rabbia.
Tutti i ragazzi della squadra frequentavano istituti diversi e di conseguenza non erano a conoscenza della situazione problematica di Leo a scuola. A mio avviso il basket era per Leo l’unico vero contesto in cui si sentisse a proprio agio e questo anche grazie all’amicizia che aveva stretto con Nicholas e Lorenzo.
Devo ammettere che la nascita di quel legame fu anche merito mio: talvolta, quando le emozioni del mio utilizzatore erano particolarmente forti e coinvolgenti, riuscivo a trasmettere telepaticamente dei piccoli consigli, inducendo una lieve sensazione sottopelle. La cosa mi richiedeva una particolare fatica, oltre ad un invecchiamento precoce, pertanto rarissime volte vi ho fatto ricorso nel corso della vita.
Quando Leo entrò in squadra, dopo uno scatto d’ira scongiurato per un pelo, lo indussi a pensare che fosse una buona idea stringere amicizia con Nicholas e Lorenzo: avevo intuito che i due, con la loro gioiosa leggerezza, sarebbero stati un balsamo per la rabbia di quel giovane. Ebbi ragione da vendere! A parte qualche tensione iniziale e qualche rischio di rissa nei primi mesi in squadra, Leo non ebbe mai alcun comportamento violento.
Ma andiamo avanti, signori miei, parliamo un po’ di basket vero e proprio!
Quando l’arbitro alzò la palla nel cielo fu Lorenzo ad afferrarla. Passò a Luca, che scattando verso il canestro segnò i primi punti. Io ero in panchina e la mano del mister mi stringeva come se fossi un anti-stress. Lo sentii fremere di eccitazione.»
Trascorro alcuni minuti a raccontare lo svolgimento della partita da perfetto telecronista: quanto questa fosse stata combattuta, i cambi, i falli, il punteggio delle squadre e i caratteri dei ragazzi che mi toccavano. In realtà dopo poco mi rendo conto che la biancheria non è molto interessata alla partita di per sé, ma viene letteralmente rapita dalla tenacia e la determinazione con cui Luca guidava la squadra. Così decido di giocare la mia carta migliore:
«Quando la partita si avviò al termine, eravamo in vantaggio. Ma si sa: il basket è uno sport in cui non si può mai abbassare la guardia! Durante l’ultimo time-out, grazie ad una particolare decisione del mister, ci fu il primo vero colpo di scena.»
Faccio una pausa più lunga del solito, e vedo che tutte le cuciture dei lenzuoli e delle camicie sono tese per la curiosità. Mi accerto che anche l’ultimo straccio mi stia ascoltando, e riprendo:
«Ricordate Davide? Il ragazzo di cui tante volte vi ho parlato, con la mente troppo articolata anche per un essere umano,» «No!», esclama con sorpresa un accappatoio, «Non mi direte che entrò in campo per la finale di campionato!» «Proprio così, mio caro compagno!» esclamo.
«Mi vorrete scusare: io non ho mai sentito parlare di questo Davide. Vi ricordo, gentili colleghi, che nelle ultime tre settimane sono stata lavata in bucati diversi dal vostro.» dice una delle federe costernata.
«Avete ragione, gentilissima! Cerco di farvi un riassunto in merito.
Davide era il più giovane giocatore della squadra, aveva poco più di 16 anni, ma il mister lo convocava spesso solo per assistere alle partite: a detta sua, era un ragazzo con un enorme potenziale, doveva essere ben istruito. Pur allenandosi con impegno, aveva prestazioni altalenanti, ed un atteggiamento particolare: in confronto alla sua insicurezza, quella di Luca era una barzelletta. Di tanto in tanto gli sembrava perdere talento e capacità, la sua mente si annebbiava e l’insicurezza che si impadroniva di lui gli faceva perdere palla come se fosse un bambino.
Era un ragazzo di corporatura esile e bassa statura per la sua età, soprattutto essendo un giocatore di basket. Il mister non dava peso a queste caratteristiche, affermando con sicurezza che aveva ancora tutto il tempo necessario per crescere.
“Per il talento che ha non ha mica bisogno di essere alto due metri! Se solo fosse meno incostante!” esclamava sotto i baffoni.
Dentro Davide albergava un mondo sconfinato. Anche io, nonostante la mia abilità, non lo compresi fino in fondo. Nel profondo era come scisso in più parti, e riusciva a formulare contemporaneamente pensieri anche contrapposti. Una parte di lui sapeva di aver talento e una grande forza di volontà, così come sapeva che se crescendo non fosse diventato uno spilungone, avrebbe compensato con tenacia e tecnica. Un’altra parte di Davide, invece, non era propriamente d’accordo: ossessionato dalle sue caratteristiche fisiche, si sentiva osservato, giudicato, denigrato. In lui ho letto tante volte un profondo e radicato senso di inadeguatezza. Si ripeteva in modo incessante che quelle poche volte che in campo aveva fatto la differenza era stata mera fortuna. Non si sentiva coraggioso, non conosceva autostima.
In Davide esisteva anche un “angolo oscuro” – lui lo chiamava così – da cui di tanto in tanto, senza preavviso e senza logica, una voce emergeva sussurrandogli che era solo un incapace, un presuntuoso per pensarsi all’altezza degli altri, un inetto senza talento. Secondo quella voce, se avesse giocato sarebbe stato ricoperto da una mortale umiliazione.»
«Mio caro canta storie, per quanto io sia onestamente ammaliato dal racconto, non credo di seguirvi. Avete un esempio da portare?» disse la solita federa.    
«Potrei menzionare l’ultimo allenamento, quando il mister comunicò alla squadra che anche per Davide era giunto il momento di entrare in campo in una partita importante. Ebbene: dopo pochi minuti dall’annuncio, Davide affermò di avere un malore, e scappò negli spogliatoi, convinto a non presentarsi il giorno della finale. Io ero con lui, tra le sue mani. Teneva la testa appoggiata su di me, pervaso disperazione e rabbia. Lacrime di frustrazione bagnavano i suoi occhi. Fingeva di star male e non era nemmeno la prima volta: preferiva lo pensassero cagionevole piuttosto che spiegare cosa realmente stava accadendo dentro la sua testa.
Mettendosi seduto bisbigliò:
“Perché sono nato difettoso? Io voglio, più di ogni altra cosa al mondo, essere un bravo giocatore, perché queste emozioni contrastanti mi bloccano? Perché non posso essere semplicemente più sicuro di me? Perché ho così tanta paura che preferisco scappare?”
Capite mio caro asciuga-piatti? Davide, quando sovrastato da troppe emozioni, non riusciva più a giocare, perché queste si trasformavano in un senso di inadeguatezza tale da creargli un dolore quasi fisico.
Devo ammetterlo: quel ragazzino occupava un posto speciale nel mio cuore, e decisi di aiutarlo, anche se quell’atto mi sfibrò del tutto condannandomi alla pensione: proprio dopo quella partita il mister mi sostituì.
Non rimpiangerò mai quell’ultimo sforzo. Con il mio dono riuscii a suggerirgli:
“Davide non sei difettoso, sei solo diverso. Le tue emozioni forti, corpose e molteplici sono parte di te: troverai la strada per vivere con esse. Abbi pazienza, abbi fede: non farti tentare dal fingerti diverso. Ciò che cerchi è già dentro di te, devi solo capirlo.”
Anche grazie alle mie parole Davide, nonostante sentisse ancora molto vivo quel suo senso di inadeguatezza, il giorno della finale entrò in campo e sorprese tutti, compreso se stesso, contribuendo alla vittoria.»
«Sensazionale!» esclamò l’accappatoio.
«Incredibile.»
«Eroico!»
«Coraggioso», aggiunsero in coro altri capi di bucato.
«Mi perdonerete l’audacia della domanda che sto per porvi: da che ne sapevo, gli asciugamani pensionati vengono gettati nell’immondizia. Come siete arrivato in questa casa, egregio cantastorie?» azzarda la camicia più brillante di tutte, dando voce alla curiosità di ogni singolo pezzo di stoffa.
«Mia cara, ma non è ovvio? Il nostro Davide, il signorino che vive in questa casa, è lo stesso Davide della finale!» la mia dichiarazione produce un mormorio di sorpresa ed approvazione, così concludo: «Dopo la partita ha chiesto al mister di potermi portare con sé, come ricordo di quella partita.
Una parte di lui aveva percepito un senso di gratitudine il giorno che gli parlai: ha voluto tenermi come promemoria per non arrendersi mai, nonostante le difficoltà. Che dire, il nostro ragazzo è veramente un’anima speciale.»   

Elena Fiorentini