
The Grace of Forgiveness
Raggi di luce sottili filtrano attraverso le tende verdi della camera da letto. Mi stropiccio gli occhi e realizzo che anche oggi sarà una giornata di sole sprecata, data l’impossibilità di uscire.
La condanna è iniziata l’altro ieri quando mio padre e lei hanno annunciato che sarebbero stati via alcuni giorni per questioni di lavoro imprescindibili, irrinunciabili e non rimandabili. Come se non bastasse, la vicina di casa è costretta in un letto per una gamba rotta, e il resto dell’umanità è in alcun modo reperibile perché in ferie. A quanto pareva l’unica persona disponibile a tenere a bada la mia sorellina undicenne febbricitante, ero proprio io.
Questa mattina mi sono svegliata molto presto, per consumare la colazione in solitaria e, soprattutto, per trascorrere due ore di studio nello stesso religioso silenzio a cui sono abituata in collegio. Scendo dal letto, infilo le pantofole e mi avvio verso la cucina. Noto che la casa è quieta, il piano deve aver funzionato: la mocciosa sta ancora dormendo.
La piccoletta si chiama Grace e non è propriamente mia sorella: solo mezza, dato che abbiamo in comune nostro padre. Mia madre non vive più in città da anni, da quando lui ha conosciuto quella con cui si è risposato.
Per papà e sua madre, Grace è una bambina piuttosto intelligente per la sua età e addirittura sostengono che caratterialmente mi somigli tanto. Non saprei: sono l’unica a non avere una vera e propria opinione in merito, e questo perché negli ultimi cinque anni ho trascorso in questa casa poco tempo. Infatti, il liceo che ho frequentato si trova in un’altra città, ed è dotato di dormitorio gratuito per gli studenti meritori, come me.
Per questo motivo, io e Grace non abbiamo un vero e proprio rapporto. La maggior parte del tempo mi è indifferente, e giuro di non avere problemi con lei. Tuttavia in questi giorni ho un motivo più che fondato per essere adirata nei suoi confronti: poco prima che mio padre partisse lasciandoci sole, ha rovinato per dispetto le mie scarpe preferite, quelle rosse con il tacco.
È accaduto due giorni fa: avevo messo piede in questa casa da circa un’ora quando ho notato che si stava aggirando intorno alla porta del bagno degli ospiti con sguardo atterrito, colpevole e, parola mia, non era dovuto alla febbre.
La cosa cominciava a puzzare: avevo lasciato le mie scarpe proprio in quella stanza, certa che nessuno sarebbe entrato. Quel bagno infatti era inagibile: mio padre aveva ordinato online una vasca idromassaggio, ma per errore ne era arrivata una vintage e consunta che, in attesa di essere rimandata al mittente, sostava nel nostro bagno degli ospiti. A malincuore mi ero resa conto di aver fatto un superficiale errore di giudizio: qualcuno era entrato perché le scarpe erano sparite. Non poteva che averle rovinate giocandoci, anche perché sua madre si era precipitata a difenderla assicurando che in bagno lei non aveva visto alcun paio di scarpe.
Le avrà gettate nella spazzatura per cancellare le tracce, ho pensato.
Papà e compagna sono partiti poche ore dopo quell’avvenimento a cui, per altro, non hanno dato minimamente peso. Da quando io e Grace siamo rimaste sole, per cercare di arginare la mia evidente irritazione, la mocciosa sfrutta ogni occasione buona per accampare in aria giustificazioni, tra cui la più gettonata è la seguente:
“Non ho fatto niente alle tue scarpe, le stavo solo ammirando perché sono bellissime. Quando le ho sfiorate sono cadute nella vasca, e sono sparite nel nulla!”
Oltre ad essere viziata, è anche bugiarda.
Non voglio più perdere tempo con i suoi farfugliamenti: c’è l’esame d’accesso all’università che incombe. Quindi eccomi in cucina alle sette di mattina, vigile e affamata come se fosse pomeriggio.
Attenta a non fare rumore afferro la tazza e la riempio di latte freddo, poi, mentre aggiungo il caffè, mi congratulo con me stessa per averlo preparato ieri sera. Sto per addentare il primo biscotto quando un suono mi fa trasalire. Il canarino.
«Dannato delinquente piumato», sibilo tra i denti.
Canta giulivo e svolazza per tutta la gabbia facendo un caos infernale. Addio, mio adorato silenzio. Non faccio in tempo a chiedermi se il cinguettio forsennato possa averla svegliata, che sento zampettare giù per le scale.
«Elizabeth sei sveglia?» bisbiglia Grace stropicciandosi gli occhi.
«Si, sono sveglia. Vuoi la colazione?» le rispondo con voce atona, mentre annuisce sbadigliando.
«Vedo che stamani stai meglio. Devi essere guarita del tutto».
Annuisce di nuovo, mentre io faccio finta di non notare il suo bisogno impellente di dirmi qualcosa. Pochi minuti dopo, quando le poso sul tavolo latte e biscotti, sembra non sia più capace di trattenersi:
«Senti Elizabeth,» ci risiamo, «mi ha detto papà che le scarpe te le avevano regalate per il diciottesimo…»
Non provo neanche ad ascoltarla, semplicemente mi esilio nei miei pensieri ripetendo nella testa gli argomenti principali della prova di ingresso. Proprio per questa distrazione a malapena mi accorgo che Grace sta marciando verso il bagno degli ospiti. Sospiro e la seguo riluttante, pronta ad ammonirla.
È in ginocchio di fronte alla vasca, ha una spugna in mano ed uno sguardo particolarmente agguerrito:
«Non puoi usare questa vasca, non è collegata alle tubature», le ricordo laconica.
«Non voglio usarla, ma solo dimostrarti che dico la verità.» mi risponde senza neanche guardarmi, pronta ad appoggiare la spugna sul fondo della vasca.
Il mio sguardo cade casualmente su una targhetta sbiadita che recita “Vasca Ripostiglio”, proprio nell’istante in cui Grace grida:
«Beth! Hai visto?» freme di eccitazione.
«Ma cosa urli?» la rimbecco, e intanto noto che la spugna è sparita.
«È successo come con le scarpe: la spugna è stata risucchiata dentro lo scarico!» dice.
A questo punto le sue sciocchezze mi hanno seriamente scocciata, e le rispondo sarcastica:
«Perché non ti fai risucchiare anche tu, così magari riesco a studiare in pace».
Non riesco a finire di formulare la frase che alcune cose accadono in successione rapidissima: la piccola Grace, con uno sguardo di fuoco puntato su di me, balza dentro la vasca e non appena sfiora il fondo diventa come incorporea, si rimpicciolisce e scompare dentro lo scarico.
Resto impietrita e un instante dopo mi sento quasi svenire. Sto solo sognando: tra poco mi risveglierò nel mio letto e andrò a fare colazione. Mi do un pizzicotto per accertarmene.
«Ahia!» esclamo ad alta voce: il dolore è decisamente reale.
Mentre mi avvicino allo scarico guardinga, mi torna alla mente una frase di mio padre, pronunciata con tono decisamente divertito prima di partire, a cui non avevo dato minimamente peso per ovvi – e razionali – motivi:
«Hai visto il manuale d’uso della vasca? Sembra un libricino scritto per schernirsi dell’acquirente: dice che la vasca sia una sorta di cantina. Ah, e suggerisce di leggere attentamente la sezione “misure di fuga per gli esseri umani” prima di farli entrare. Che assurdità!»
Non riesco a capire se sono più confusa o spaventata. Forse entrambe. L’incolumità di Grace dipende da me, come faccio se il manuale dice il vero? Inizio a cercarlo per tutta la stanza, senza avere successo.
«E va bene», dico ad alta voce, «invece che all’università, mi chiuderanno in manicomio!» e salto nella vasca. È come se una folata di gelido vento invernale mi colpisse in pieno. Poi divento leggera, intangibile, mi restringo e in un attimo è tutto finito. Apro gli occhi: mi ritrovo in un vicolo stretto contornato da finestroni alti, scuri e polverosi. Tutto intorno a me sono ammassate ampolline, boccettine e altre cianfrusaglie da bagno. Verso l’alto noto dei piccoli terrazzi adornati con fiori color magenta e violetto che si specchiano su un cielo rosa-azzurro quasi evanescente.
Stordita giro in tondo notando che la stradicciola curva verso sinistra. A passo svelto mi avvio su quella strada e chiamo Grace con voce incerta senza ottenere risposta.
Pochi istanti dopo mi trovo esattamente al punto di partenza: capisco allora, con frustrazione e rabbia crescenti, che il vicolo è circolare.
«Disgraziata bambina, dove sei?» sibilo tra i denti sprezzante, e un attimo dopo la vedo spuntare da dietro la curva.
«Ciao Beth», mi guarda con sorriso forzatamente innocente, e leggo nel suo sguardo la voglia di farsi beffe di me. Per un momento addirittura dimentico che è così piccola e le parlo come ad un adulto, sommergendola con una serie di domande retoriche del tipo:
“Che diamine di scherzo è questo?”
“Cosa hai nella testa?”
“Quanti guai ancora hai intenzione di combinare?”
“Bambina viziata ed egoista!”.
Mi lascia sfogare senza ribattere, ma intanto il sorriso abbandona il suo volto per lasciare spazio ad una mal celata tristezza. Sembra abbattuta. Noto che non ha mai tolto le braccia da dietro la schiena, proprio perché in quel momento le porta avanti, mostrandomi le mie scarpe rosse preferite.
«Non ho rovinato le tue scarpe», dice timorosa, «erano finite in cima a quella pila di oggetti» e rigirandosele tra le mani aggiunge quasi con adorazione, come se stesse sognando ad occhi aperti: «papà non mi ha mai fatto un regalo tanto bello. Se da grande sarò brava e intelligente come te, pensi che meriterò anche io delle scarpe così?».
«Perché non te le fai regalare da tua madre visto che sei la principessa di casa?» le rispondo di getto e con ostilità. Mi rendo conto di averle lanciato una brutta frecciatina, ma non mi importa più di tanto: ho bisogno di sfogare questa rabbia che galleggia incorporea dentro me.
«Elizabeth, ma perché mi odi?» dice guardandomi negli occhi, rassegnata.
Sento una sensazione di disagio all’altezza dello stomaco che mi fa ammutolire. Io non odio mia sorella, vero?!
«M-ma Grace, io non…ecco mica ti odio! Che sciocca domanda», inizialmente rispondo con voce incerta, ma riesco subito a riprendermi acquisendo un tono irritato: quello che uso quando sono sulla difensiva.
Accidenti Elizabeth – mi dico – possibile che quale sia la tua emozione, tu risulti sempre arrabbiata?
«Papà dice sempre belle cose di te, sai? Quanto sei cresciuta, quanto sei intelligente, responsabile. Spera che io diventi brava come te a scuola, e anche con il violino,» indugia un secondo, poi aggiunge timorosamente: «dice anche che non devo avere paura di chiederti consigli, che dovrei telefonarti più spesso.»
«E perché non lo fai?» e sono davvero curiosa di saperlo.
«Perché non vuoi. Sento di infastidirti.» afferma con voce priva di dubbio.
Rimango interdetta e mi chiedo: mi darebbe fastidio se telefonasse? Non ci avevo mai pensato prima di ora.
Lei approfitta del mio silenzio sorprendentemente pacifico per aggiungere:
«Papà dice che mi rispondi sempre male perché sei arrabbiata con la mamma. Che non lo fai perché non mi vuoi bene. Sai, anche la mia mamma parla sempre bene di te, lo capiresti se tu le dessi una possibilità».
Un piccolo schiaffo morale. Da qualche parte dentro di me sono consapevole che questa rabbia non sia rivolta verso Grace, ma non ho intenzione di affrontare le mie emozioni in questo momento, così cambio repentinamente focus della discussione.
«Sicuramente non ci saranno possibilità alcune se non riusciamo a tornare a casa!» ed inizio a guardarmi intorno cercando una via d’uscita. Ma le porte sembrano sigillate ed i terrazzi irraggiungibili.
La bambina si illumina e riacquisendo il sorriso esclama:
«Non ci sono problemi: so io come fare! Devi solo fidarti di me,» alzo gli occhi al cielo, «ho letto il manuale della vasca: è qui nella mia tasca. C’è scritto che, una persona, se per errore salta dentro, deve convincere il vicolo di essere capace di muoversi, così da poter essere distinta da un oggetto. Per prima cosa devi fargli il solletico nel punto gius…» si interrompe osservando il mio sguardo ammonitore.
«Mi prendi in giro?» le dico glaciale.
Le braccia di Grace, con una scarpa rossa per mano, le cadono con senso di resa lungo i fianchi e mi risponde: «Ma perché, per una volta non provi a fidarti di me?»
L’ho fatto di nuovo: le ho risposto molto male senza motivo. Papà ha ragione: Grace non merita il mio atteggiamento scorbutico, non è giusto. Tutta la sofferenza che ho affrontato da bambina non dipende da lei, lo so, ma nonostante tutto è a lei e sua mamma che attribuisco questa colpa. Loro, ai miei occhi, sono la causa della separazione dei miei genitori. Non voglio ammetterlo perché me ne vergogno. Fingo di essere distaccata da tutta questa situazione, ma in realtà provo rabbia. Una grande rabbia che riconosco essere eredità del passato.
Grace è molto coraggiosa e seppur così piccola, ingenua e con un’immatura saggezza, ha acceso la mia consapevolezza dimostrandomi quanto il mio atteggiamento sia costellato da effetti collaterali, che la feriscono. Sono davvero egoista.
«Papà dice che sei una bambina intelligente, capisco perché», borbotto, più a me stessa che a lei.
«Almeno sei contenta di riavere le tue scarpe?» mi chiede.
Sospiro e mi siedo per terra, poi le faccio cenno di imitarmi. Voglio provare una cosa nuova, così con una voce sottile le dico:

«Ma non dovremmo tornare su? Devi studiare per l’esame» mi risponde perplessa: la mia domanda l’ha lasciata talmente stordita che rimane impalata.
«Per quello abbiamo tempo», sorrido.
Le basta un attimo, si siede ed inizia a tempestarmi di domande. Cerca consigli per le scuole superiori e per le lezioni di musica. Poi viriamo su argomenti semplici, del tipo cosa cucinare per pranzo, o quale sia il mio fiore preferito. È davvero brillante per la sua età, sembra molto più grande.
Continuiamo a chiacchierare per un po’. È una piacevole novità: sento quasi svanire un poco della rigidità che mi contraddistingue. Ma alla fine la conversazione torna a focalizzarsi sulla necessità del momento: tornare a casa. Ingoiando i toni aspri che l’abitudine mi suggerisce di usare, decido di concedermi un grande atto di coraggio: mi fido di lei senza storie.
Grace mi consegna le scarpe rosse, poi indica un mattoncino scuro ai piedi della piramide di cianfrusaglie, e gli fa il solletico: dal terrazzo sopra la nostra testa un tappo per la vasca attaccato ad una catenella scivola verso il basso.

«Devi tirarlo, come quando vuoi scaricare lo sciacquone», sghignazza Grace, e mi riprometto che se mi sta prendendo in giro non le perdonerò più nulla.
«Ok, tu verrai dopo di me?» le chiedo incerta, lei annuisce e tiro la catenella, con le scarpe rosse salde nell’altra mano.
Raggi di sole sottili filtrano attraverso le tende verdi della camera da letto. Mi stropiccio gli occhi, realizzando che, anche se oggi non potrò uscire, almeno avrò un po’ di compagnia. Grace dorme ancora placidamente, non voglio svegliarla così presto. Mentre mi avvio verso la cucina cercando di non far rumore, noto che la porta del bagno degli ospiti è socchiusa. Le mie scarpe rosse preferite, sono in bilico sul bordo della vasca vintage che papà deve restituire. Noto un post-it sgualcito proprio sotto le scarpe. Sembra vecchio quanto la vasca. Lo prendo in mano, recita così:
“Se sei stanca di vivere nel rancore, hai davanti a te due opzioni: puoi perdonare chi ti ha ferita lasciando tutto alle spalle, oppure, puoi convivere con la consapevolezza di non riuscire a farlo, senza essere sopraffatta dal senso di colpa. Puoi perdonare te stessa per le emozioni che provi.
Accetta la fragilità insita nell’essere umano. Apprezza la dignità di questa tua imperfezione che si manifesta nell’impossibilità, nell’impotenza, nella rabbia e nel risentimento che provi verso te stessa – e come effetto collaterale, verso chi ti circonda – quando proprio non riesci a fare ciò che sarebbe giusto fare: perdonare l’altro.”
Lo metto in tasca e guardo fuori dalla finestra: oggi è una bella giornata di sole.

