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CHE VINCA IL MIGLIORE

Da Bambino avevo la strana tendenza a definirmi brutto.
Spiego meglio. Se qualcuno, ad esempio un amico di famiglia, si chinava verso la mia faccia, minaccioso dal mio punto di vista di cinquenne, per elargire complimenti del tipo: “Che carino che sei, quanti anni hai?”, si sentiva puntualmente rispondere: “Io sono brutto! E la mia età non è un problema tuo!” Turbe psichiche? Maltrattamenti genitoriali?   Nulla di tutto questo. Neanche l’inconscio c’entra in questa faccenda. Dunque nessuno provi a dargli la colpa (visto che ormai la moda è quella di attribuirgli tutti i problemi). Sono sempre andato molto d’accordo con me stesso, così come ho sempre avuto il pieno controllo dei miei pensieri (o almeno credo). Lo ribadisco per togliervi subito dalla testa le idee sbagliate che potreste esservi fatti sul sottoscritto. Il fatto è che: semplicemente ero già un metallaro. A dire il vero non sapevo ancora di esserlo, visto che avevo appena poco più di sei anni quando i Maiden e i Megadeth erano ai primi esordi nel lontano decennio ‘70 – ‘80. Lo avrei scoperto solo una decina di anni più tardi, ma questa è tutta un’altra storia.
Ora, se volete sapere quale sia il nesso tra: un cinquenne che afferma la sua bruttezza, l’amico di famiglia adulatore e l’essere un metallaro, a dire il vero non lo comprendo nemmeno io. Per carità, so che toccherebbe a me dare le risposte, ma proprio non saprei che dire, nessuno me ne voglia. Mi chiedo, infatti, per quale motivo vi abbia raccontato tali aneddoti. Una cosa però la so: provavo disagio.Lo stesso disagio che provo in questo istante, seduto su una scomoda sedia in una fredda sala d’aspetto.

Ennesimo colloquio di lavoro.

Butto una veloce occhiata alla porta vetro che separa la sala d’attesa dalla stanza in cui il selezionatore è con un altro candidato, il poverino è già “sotto i ferri”. I due sono seduti uno di fronte l’altro. Si percepisce dalla loro postura composta che la conversazione ha dei toni assai formali. Mi chiedo che tipo sarà l’esaminatore.
Sarà uno di quelli che ti fa parlare a rotta di collo, con un’insaziabile voglia di prosciugarti ogni parola che hai in corpo? Oppure mi troverò davanti il classico tipo friendly?
I miei preferiti sono quei selezionatori che ti chiedono da subito il permesso di darti del “tu”. Per la serie: “Vado subito al sodo, non ho tempo per le formalità”. Con questi il dialogo scorre piacevolmente, ma mai affidarsi alla sensazione di averli conquistati. Sarà infatti la prassi non ricevere nessuna comunicazione sull’esito della “chiacchierata”. 
Poi ci sono i saccenti, quelli cioè che ti guardano dalla testa ai piedi e dall’alto verso il basso. Questi ti sottoporranno a improbabili domande da velina, per la serie: “Mi dica tre suoi punti di forza, e tre suoi punti deboli”, per poi cominciare a farti parlare dall’esame di terza media. Cazzo! Ho una laurea in ingegneria, un decennio di attività lavorativa sul groppone, anche se al momento sono a terra, e lo stronzo mi chiede informazioni sul voto che ho preso all’esame. Decisamente questa è la categoria che detesto di più, per questo la definisco semplicemente: “le teste di cazzo” (mi spiace per chi si aspettava una definizione più creativa, ma ho voluto rendere al meglio l’idea).
Ad ogni modo, non sono il solo ad aspettare, qui con me ci sono altri tre candidati. Il ragazzo alla mia destra ha l’aria di essere uno che di nome fa Mario. A giudicare dalla sua faccia è di Milano, ha 26 anni ed è fresco di laurea in economia. Sembra un bravo ragazzo il nostro Mario: è assorto sul suo smartphone per scrollare la pagina Google in cerca di chissà cosa. Poi alla mia sinistra c’è Melissa. Per lei, ho pensato a questo nome perché sa di glassa: capelli neri tirati a lucido, legati in una mini coda di cavallo. Melissa sembra un fottuto confetto in quel suo vestitino bianco e nero, tipo bavarese uscita da una favola dei Grimm. Infine c’è lui, lo chiamerò Tim. Il nome inusuale deriva dal fatto che la madre americana, nonostante viva a Milano da 60 anni, abbia scelto di fare l’americanata: giusto per sottoporre il figlio alle svariate prese per il culo da parte dei compagni di scuola. Per la serie: come rovinare la vita di un individuo. Tim mi pare un tipo simpatico, vorrei tentare un approccio, ma il fatto è che mi sento affetto da sociopatia. Non che io sia in possesso di diagnosi esperte e cartelle cliniche che lo attestino, eppure signori è così, che vi piaccia o no: o mi ci sento. Non mi ci è voluto molto a capirlo: la mia totale assenza di amici, quella perenne difficoltà a relazionarmi con il prossimo evitando continuamente il confronto con tutti, anche con quelle persone che conosco da una vita, se non è sociopatia è qualcosa di simile. Tuttavia, per quanto possa suonare strano per un sociopatico, io sono per il dialogo.

Piccola digressione sul tema: l’azione del dialogare presuppone che vi siano due persone: chi parla e chi ascolta. Attenzione, nota importante: non chi parla e chi sta in silenzio solo aspettando il proprio turno per proferire parola, magari non ascoltando una cazzo di quanto detto dall’altro. Ho detto: ascoltare e prendere la parola qualora si abbia qualcosa di sensato da dire, bando agli egocentrismi. Il problema è che la maggior parte delle persone ha dimenticato quali siano i fondamenti sui quali si basa la sana comunicazione, così che nella maggior parte dei casi ci si troverà di fronte a sproloqui asfissianti colmi di dettagli totalmente inutili e fuori contesto, di cui ovviamente a nessuno interesserà un beato nulla. Proprio per questo evito di intavolare scomode conversazioni, anche perché non me ne può fregare una sega di chi parla e di chi ascolta e tanto meno se la gente è in grado di dialogare. Quello che mi preme ora, è capire cosa mi farà l’esaminatore là dentro.

Rivolgo lo sguardo a Tim, indossa il suo bellissimo abito Gucci, è bianco cadaverico, suda freddo, e giochicchia ansiosamente con i suoi capelli riccioluti. Chissà se anche lui è un sociopatico come me. Non smette di agitare le gambe neanche per un istante. Noto la sua cravatta color porpora. Questo colore mi fa venire alla mente i vichinghi e i loro viaggi alla ricerca del famigerato mollusco (qualora vi fosse un errore in questi pensieri chiedo venia: sono un ingegnere gestionale e non uno storico).
Lo sguardo di Tim incrocia il mio. Ha capito che lo sto fissando da qualche secondo e preso dall’imbarazzato gli dico:
– Speriamo bene!
– Cosa? – mi risponde lui.
– Il colloquio, – rispondo. – Sai, ho una paura fottuta di fallire per l’ennesima volta!
– Già, a chi lo dici! I miei genitori mi hanno già detto che mi tagliano i fondi e che mi conviene trovarmi seriamente un lavoro.
Caspita mi dispiacerà soffiargli il posto, penso con un’insolita empatia. Intanto Melissa recita una filastrocca, una sorta di sciogli lingua, parole incomprensibili, e non smette di fare avanti e dietro per la stanza. Mario è ancora assorto sul suo telefonino, non ha mai alzato la testa, neanche per guardarci, non si è ben capito cosa stia cercando, visto che non ha mai smesso di far scorrere il dito su e giù per lo schermo. 
Ritorno al dialogo con il mio Tim, giusto per alleggerire ancora un po’ la tensione:
– Sai, io sarò di un decennio più grande di te e penso che, – non riesco a terminare la frase che Melissa mi passa davanti, togliendomi la visuale. Rimango a fissarla qualche istante, cammina compulsivamente: arriva al muro e torna indietro. Praticamente risulta impossibile proseguire ogni forma di dialogo con questo pendolo bavarese tra i coglioni.
Comunque non avrei potuto approfondire la mia chiacchierata con Tim perché la porta scorrendo lascia uscire l’esaminatore e il candidato. Sorriso. Stretta di mano. Infine la fatidica frase:
– Grazie, le faremo sapere!
Poi passa a scrutarci dietro i suoi occhialetti e ci dice:
– Prego signori.
Ci guardiamo perplessi, non abbiamo ben capito di chi sia il turno, tanto da doverci ribadire:
– Si si, intendevo proprio tutti, entrate. So che non è da protocollo, ma ho deciso di fare uno strappo al regolamento.
Melissa è la prima a fiondarsi nella stanza, io, Tim e Mario ci alziamo tentennanti, increduli di dover entrare assieme. Strana per quanto ci possa apparire, assecondiamo la richiesta. Nella stanza sono già state posizionate quattro sedie grigie di fronte all’esaminatore:

– Bene signori, vi starete chiedendo come mai siete tutti convocati qui contemporaneamente. Questo non sarà un normale colloquio di lavoro contrariamente alle vostre aspettative. Il proprietario della CB-Corporation, ahimè, deve essere impazzito: ha deciso di affidare il ruolo di amministratore delegato dell’azienda a uno tra voi quattro.

Ci guardiamo sbalorditi, Melissa mette le mani sulla bocca in segno di stupore, Tim ha un sussulto e pare stia per svenire, Mario, che non smentisce la sua flemma, sembra rimanere impassibile. Io comincio a chiedermi in che sorta di esperimento sia finito.

– C’è un però, ne arriverà soltanto uno. E quando dico soltanto uno, intendo letteralmente! Nei cassetti della scrivania, ognuno di voi, ha un kit a sua disposizione per eliminare gli altri candidati. Sarà premiata la vostra fantasia!

Sono quasi deciso ad alzarmi e andarmene, la faccenda mi mette in forte stress, visto che l’ultima volta che ho messo in campo il mio spirito di competizione ero probabilmente alle scuole elementari e piansi per aver vinto e tolto la medaglia a Roberto. Decido però di provarci, quando mi ricapita di diventare un amministratore delegato! Tiriamo fuori dai cassetti i nostri kit. L’esaminatore ci chiede di disporre sul piano, in bella vista, il contenuto della scatola. Ed è qui che ho un colpo: quattro pistole smontate, pezzo per pezzo e un foglietto bianco scritto a penna con delle incomprensibili istruzioni per montarle.
Il folle fa partire un timer e con un sorriso compiaciuto ci dice:

– Avete 30 minuti per montarle… e usarle ovviamente. Che vinca il migliore!

Lascia l’indicatore dei minuti sul tavolo, ci volta le spalle e se ne va, richiudendo la porta vetri a chiave.
La mandata della serratura non ha chiuso soltanto la porta, quel click ha anche chiuso la mia testa. Vedo tutto nero. Non riesco a pensare, sono prossimo al collasso. L’unica cosa in grado rassicurarmi è la certezza che i miei compagni di avventura non vorranno prestarsi a questa follia. Gli rivolgo lo sguardo, dobbiamo progettare un piano per venir fuori da questa faccenda. Ma la scena che mi si presenta davanti mi fa accapponare la pelle. I tre bastardi sono già all’opera. Cazzo!
Tim, è frenetico, perde gli ultimi pezzi impaurito, Mario legge le istruzioni come se fossero quelle di un giocattolo della lego, e poi c’è lei, Melissa che invece ha quasi terminato. In un istante le vedo inserire il caricatore, con tanto di colpetto sotto il calcio, scene che ho visto solo nei film.
Sono fottuto. Punta verso di me, evidentemente ha deciso che sarò il primo. Ovvio, sono il candidato più temibile – ma perché sono sempre così fottutamente perfetto?!

– Peccato eri così carino, – mi dice guardandomi dritto negli occhi prima di sparare.
– No! Io sono brutto!

SUONO ONOMATOPEICO COLPO DI PISTOLA

– Dott. Rossini?! Dott. Rossini?! Mi sente?!
Mi tocco il petto, sono ancora tutto intero.
– Dott. Rossini si sente bene?
– Ah sì, mi scusi, mi dica.
– Tocca a lei, l’esaminatore la sta aspettando.
Cazzo! Devo proprio smetterla di leggere Hunger Games

Franco Bungaro