storiviste

L’uomo alla finestra

Come al solito sono in ritardo, @dadinski_ sarà già seduto al tavolino del bar dove ci siamo dati appuntamento. Dario è l’illustratore che oggi dovrò intervistare: scriverò su di lui per la rivista letteraria per cui lavoro.
– Ordina pure se vuoi, – gli dico inviandogli un audio su whatsapp, – cinque minuti e sono da te.
So bene che non saranno solo cinque, i minuti. Allaccio le scarpe. Afferro l’ultimo ombrello superstite. È uno di quelli sgangherati che alla prima folata di vento mi abbandonerà in balia delle intemperie. Non ho di meglio, ho uno strano rapporto con questi oggetti: li dimentico sempre, ovunque!
Uscita dal portone, mi affretto tra le pozzanghere e cerco di tirar su la tracolla che mi sega una spalla. La strada scorre veloce sotto i piedi, conoscono a memoria il tragitto, intanto che la testa è persa tra i soliti pensieri: perché devo ridurmi sempre all’ultimo minuto? Che razza di stress! È la prassi: una volta giunta a destinazione, superato l’empasse dei primi secondi durante i quali mi scuserò petulante del ritardo, sorriderò camuffando l’imbarazzo e poi finalmente, forse, mi rilasserò.
Intanto sono ferma sulle strisce aspettando che il semaforo dia il via ai pedoni. Prendo fiato.
C’è una finestra dall’altro lato della strada, un infisso bianco a doppio battente che affaccia sul marciapiede. La mia immagine si riflette sui vetri, monolitica. Mi guardo: odio come mi allaccio le scarpe, quel nodo mi fa sentire così sbagliata, in realtà mi sento sbagliata con tutto quello che indosso. 
Sono pensieri come lampi, come “improvvisate radici che mi condannano all’inerzia”. Scrosto prima un dito, poi l’altro, poi il polso, una gamba e l’altra ancora, sono di nuovo libera di muovermi.

C’è un uomo dietro quella finestra, rimaniamo qualche secondo a guardarci. Soli, niente più macchine, niente più passanti, niente più pioggia. Noi e la luce rossa dello stop.
Ha degli occhialetti rotondi, e un maglione girocollo. Continua a fissarmi. Deve aver notato la mia espressione mentre mi specchiavo nella sua finestra.
Lo vedo chinarsi per poi riapparire con un foglio A4 tra le mani e una domanda scritta con un pennarello:
Di chi hai paura?

– Paura?! – chiedo con tono saccente, – di nulla! – urlo dall’altro lato della strada, facendogli le spallucce.  
Ho l’espressione di chi pensa di aver dato il colpo finale sul ring, gli lancio un sorriso e butto un occhio al semaforo, gli rivolgo un’altra occhiata fugace, questa volta però, non ci sono più i vetri bagnati a separarci e con la finestra spalancata mi grida:
– Non ti ho chiesto di cosa, ma di chi! – portandosi le mani alla bocca a mo’ di megafono.
Queste parole mi arrivano addosso come eco su una montagna. La strada che ci divide diventa un fiume da guadare, ci fronteggiamo su sponde opposte. –
Avrò forse paura davvero?! Come può quell’uomo aver capito in soli 30 secondi quanto sia terrorizzata dalla mia stessa immagine, prima ancora che lo capissi io stessa?
Non posso soffermarmi a lungo su questi pensieri, il semaforo dà il via e non voglio farmi aspettare troppo all’appuntamento.
Attraverso come se stessi percorrendo un varco spazio-tempo in cui tutto si dilata, riesco solo a percepire l’alternarsi di bianco – nero – bianco – nero – bianco – nero tra le strisce e l’asfalto.
Lui mi segue con lo sguardo, questa volta io faccio più fatica a reggerlo: è come se le sue parole mi avessero spogliato infondo all’anima. Percepisco l’imbarazzo di sentirmi nuda davanti ai suoi occhi.
Ha tutta l’aria di chi vuole dirmi: avrai il coraggio di fermarti?! Ma io fra soli 30 secondi sarò finalmente fuori dalla sua visuale, avrò voltato l’angolo e lascerò lui e la sua finestra alle mie spalle.
Pochi metri ancora, li percorro frettolosamente, ma con la mente sono rimasta lì: a quell’incrocio, a quella domanda.   
Finalmente arrivo al bar.
– Ciao Dario, scusami ho fatto tardissimo!
– Ma no tranquilla.
– No scusami, davvero, detesto far aspettare le persone! – mi siedo e tiro fuori dalla tracolla il taccuino con le domande da fargli.
– Tranquilla, nel frattempo ho mangiato una millefoglie. Caspita ma piove tanto fuori?! – mi chiede guardando i miei capelli gocciolare.
– Ehm no, non proprio, è il mio ombrello che serve a ben poco. Dunque, – respiro, tutto da manuale: comincio a rilassarmi, – veniamo a noi: intanto grazie di aver accettato questa intervista.
– Grazie a voi, per me è una piacevole opportunità. Anzi se ti va, prima di sfilare il cappotto, ci spostiamo in studio da me, potrò mostrarti meglio alcuni lavori. È proprio nel palazzo qui su.
Mi sembra un’ottima idea, raccolgo tutte le mie cose e ci avviamo da lui. Dario nel breve tragitto tra il bar e le scale comincia a spiegarmi del suo lavoro, io però nella testa ho un caos di emozioni, non posso non pensare a quell’uomo e alle sue parole.
Arriviamo nel suo laboratorio: è un posto fighissimo, alcuni dettagli sono rigorosi e logici, altri sono scorci confusi ed eccentrici.
– Vieni, accomodati!
Mi guardo attorno, mentre lui tira fuori sei, sette tavole di illustrazioni bellissime. Inchiostro nero, tanto bianco e qualche macchia di colore. L’occhio mi cade immediatamente su un’immagine di un uomo alla finestra. La guardo.

– Questa mi piace molto! – lui la gira dalla sua parte e mi chiede: – Perché proprio questa?

Si, esattamente – metto l’iphone in modalità registratore per non lasciarmi sfuggire nulla delle sue risposte, e annoto qualche parola con una penna trovata sulla sua scrivania.
Di solito disegno partendo da un pensiero, una riflessione su ciò che mi circonda. Qualcosa che cerco, poi, di sintetizzare in una forma. A monte c’è sempre un’esigenza di raccontare, di comunicare con l’altro cercando un suo riscontro.

Lo ascolto con attenzione, mi piacciono i suoi spunti. Mi sento a mio agio immersa nel suo mondo disegnato, cerco la risposta al caos di sentimenti che mi sono piombati addosso oggi. Lui continua dicendomi: – Tutto questo mi fa sentire meno solo, penso sia un modo per dire al tempo stesso “eccomi, esisto” ma anche “esisti tu”.
Silenzio. Guardo ancora quel disegno e continuo chiedendogli:

Disegno da quando ho memoria! Mia madre mi ha messo i pennarelli in mano a un anno e ha poi lasciato che mi esprimessi liberamente tramite il colore. Da lì ho sperimentato un po’ di tutto: acquerelli, acrilici, tempera, vernice, collage fino ad arrivare all’illustrazione. Su questo linguaggio mi sono fermato di più, forse per la sua immediatezza sia di realizzazione sia di “ricezione” del messaggio. Ho scelto una forma semplice per questo, linee nere su fondo bianco. In generale tendo alla sottrazione, al poco ma significativo. Nella mia testa c’è sempre tanta confusione, i miei pensieri non si fermano mai e tramite l’illustrazione ho modo di fermare poche immagini e dar loro la giusta importanza, accantonando il resto.

Mio caro, sapessi nella mia, avrei voglia di dirgli. Incredibile: è riuscito a far sentire meno sola anche me. Ascoltandolo mi accorgo di quanto sia viscerale la mia voglia di esistere, di trovare il mio linguaggio, di trovare il mio riscontro.
Voglio davvero essere ciò che sono? Sono davvero ciò che voglio?
Penso all’uomo alla finestra. È stato come svegliarsi da una routine fatta di rinunce e di accettazione, di chi si è assopito nel recitare la parte del: guarda a quelli che stanno peggio, di chi ha rinunciato a credere di potercela fare e ha trovato un posto stretto in cui convivere con le proprie infelicità. È stato come il pugno di colore nei disegni di Dario, così gli chiedo:

Ultimamente ho aggiunto qualche tocco di colore qua e là, ma solo se sento che ce n’è bisogno, se arricchiscono il disegno senza appesantirlo. Il colore mi aiuta a porre il focus su un elemento in particolare o a esprimere meglio uno stato d’animo: ho usato tanto il rosso per un periodo perché è il colore vivo per eccellenza, eccitante, impossibile da ignorare – come il rosso dello stop al semaforo – pian piano sto scoprendo anche gli altri. Resto sempre affezionato al bianco e nero, ma è giusto anche sperimentare e spingersi più in là se è quello che sentiamo giusto fare. Qualcuno ha avuto da ridire, ma per quanto cerchi il favore altrui, questo processo di continuo cambiamento viene prima di tutto.

Inizialmente no, ho seguito l’istinto. Mi ha aiutato a trovare una mia voce senza sentirmi troppo influenzato da altri artisti. Ovviamente qualcosa di ciò che vedevo in giro: fotografie, riviste, pubblicità, mostre, riaffiorava sempre in ciò che realizzavo, declinato in maniera differente, conscia o inconscia. Di recente, invece, ho iniziato a “sbirciare” con maggiore consapevolezza; seguo diversi illustratori e artisti visivi sui social, ora ne conosco anche i nomi. Alcuni di loro erano già presenti nella mia vita prima che me ne rendessi conto. Posso citarvi, tra i più influenti, Keith Haring, Max Ernst, Otto Dix. Altri li ho scoperti (o riscoperti) avvicinandomi al mondo dell’illustrazione: Lorenzo Mattotti, Guido Scarabottolo, Gipi ma anche Victo Ngai e Keith Negley sono ottimi esempi!

E chi lo sa! – ride – Vorrei curiosare un po’ nel mondo dell’animazione, in questo modo il disegno incontrerebbe l’altra mia grande passione: il cinema. Spero solo di trovare sempre un nuovo paesaggio ogni qual volta io mi affacci, come accade oggi. Ho poche certezze nella vita, la mia arte è tra queste.

– Wow, mi piace! – mi galvanizzo all’idea del nuovo, dell’intrigante mistero nell’affacciarsi su nuovi paesaggi, però poi mi spavento al tempo stesso di abbandonare quelli conosciuti. Quell’uomo sarà ancora lì? Lo vedrò mai più?! Gli chiedo un ultima cosa, pensando al dolce che aveva finito di mangiare quando sono arrivata al bar:

Bella domanda, soprattutto perché non sono un amante dei dolci – ride – Probabilmente proprio una millefoglie: ha strati di pasta croccante per cui può sembrare un po’ “dura” ma possiede anche parti morbide di crema, in un equilibrio che restituisce al palato i caratteri migliori di entrambe. E poi la sua natura stratificata rappresenta bene i tanti linguaggi tramite i quali mi esprimo!

Non avrei saputo descrivere meglio di così un dolce tanto complesso, – penso all’equilibrio, quello che vorrei! Lo stesso che spesso sento mancare: nelle mie emozioni, nelle mie reazioni, su quella bilancia sempre troppo sbilanciata.
– Grazie Dario, per il tuo tempo prezioso. – gli dico stoppando la registrazione e richiudendo la penna nel taccuino: – Avrei un’ultimissima richiesta da farti, posso portare questa illustrazione con me?

So di avergli chiesto sfacciatamente di regalarmi il suo “uomo alla finestra”, ma non potevo andare via senza averglielo chiesto.
– Certo! Fanne buon uso. – mi dice con un grosso sorriso sula faccia.
Ci salutiamo con affetto, con l’impegno di comunicargli la data di pubblicazione dell’intervista.
Ha smesso di piovere, ora la camminata verso casa è lenta e concentrata sul presente.
Sono di nuovo all’incrocio. Questa volta il semaforo è giallo: ho giusto il tempo di fare quello che ho pensato. La finestra è alla mia sinistra. Prendo il coraggio di sbirciare: quell’uomo non c’è più. Benissimo, frugo nella mia borsa, tiro fuori dello scotch e incollo sui vetri l’illustrazione di Dario, con una scritta in corsivo:

Guardo compiaciuta il mio atto di libertà, mi volto e con un nuovo sorriso torno alla mia normalità.
P.S. L’ombrello sgangherato, infatti, l’ho dimenticato al bar.