racconti

UN MANCATO PREMIO NOBEL (anzi due)

Sudo.
La sabbia blu dentro la clessidra scivola a rilento mentre il calore secco della sauna comincia a farsi sentire. Brucia la pelle. Invoglia le ghiandole sudoripare a piangere. E intanto la sabbia scandisce il tempo che scorre. Che va. Dove? Mi verrebbe quasi da chiedere.
Chiudo gli occhi.
Lascio i miei pensieri vagolare, ripercorrere la giornata. Anche oggi non ho fatto molto. Sveglia presto (forza dell’abitudine). Colazione: grandi abbuffate, grandi sorrisi. Un ciao, buona giornata e poi una lunga passeggiata in una soleggiata giornata di febbraio. Il mare si agita forse per via della leggera brezza che tira.
Cammino lentamente: metto un passo davanti l’altro.
Cerco un posto che mi ispiri, in cui possa sedermi, ordinare un caffè (forse anche un dolcino), accendere il mio portatile e cominciare a scrivere. Oggi non mi sono spinta troppo in là: stesso chilometraggio, stesso tavolino, stessa vista mare.
Il telefono, dalle profondità della borsa, emette un trillo. Un messaggio:
“Sei pronta per la passeggiata nella libreria più storica di Parigi?”
Sorrido. Digito un sì, invio e mi metto in attesa. Non passa il minuto che il cellulare squilla.
– Allora dove sei? – chiedo bypassando pronto e altri convenevoli.
– Sono in Rue della Bucherie alla Shakespeare and Company. In questa libreria Ezra Pound ed Ernest Hemingway si incontravano e conversavano di letteratura o di quello che avevano mangiato la sera prima.
Rido.
– Che meraviglia! Quanto vorrei essere là.
– Ma tu sei qua!
Lei. La mia ex compagna di banco al liceo. Lei. Il mio miele di castagno.
Un anno prima c’eravamo inventate questa cosa della telefonata in viaggio: l’idea era quella di portarci a spasso in giro per il mondo (o comunque di una bellissima sua parte) e vedere insieme (per la durata di una chiacchierata) piazze, tram, palazzi, fiumi e parchi sconosciuti ad entrambe. Passeggiare su strade mai calpestate. Incrociare lungo la via volti che, con buona probabilità, non avremmo ritrovato mai più.  
Ed è successo così: un po’ per caso. A Madrid.
Un lunedì mattina di novembre inoltrato, dopo aver salutato le mie amiche con le quali avevo trascorso il fine settimana per festeggiare il compleanno di una di loro, mi apprestavo a godermi un altro giorno e mezzo in assoluta e beata solitudine. Passeggiavo verso Porta del Sol, rimuginando su quanto successo la sera prima: un’incazzatura generale di donne contro altre donne per la mancanza di attenzioni, rispetto e altro nei confronti di tutte e di nessuna.
Pippe da femmine, avrebbe detto poi il tipo che frequentavo in quel periodo. E aveva ragione (solo su questo s’intende): in effetti eravamo un gruppo di donne un po’ male assortite o più probabilmente con il ciclo mestruale non sincronizzato.
Non riuscivo a smettere di pensare a quell’amica di un’amica (e che io non conoscevo affatto) che, in lacrime, sbraitava di fronte a un piatto di paella contro una e tutte. E quello che riuscivo a vedere nitidamente era una persona che cercava di rivendicare il suo diritto all’esclusività di rapporto. Ogni parte del suo corpo gridava: alto tradimento.
E qualcosa dentro me ha cominciato a scuotermi e a farmi male: vedevo bene quel malessere perché tante volte ne ero stata vittima. Quel sentirsi esclusi, non parte di una confidenza o di un invito a cena o di un’occhiata d’intesa che non coinvolgeva me: questo modo d’essere è stato, per anni, parte di me. Una sensazione che sentivo fedele e complice e che mi faceva covare i più grandi risentimenti per poi esplodere in filmiche sceneggiate napoletane.
È così quando si cresce a pane e sospetto: le persone sono tutte invidiose, tramano contro di te, i maschi sono tutti uguali (il che significa che prima o poi ti tradiranno con una che non si sa bene come o perché è più di te). Una somma di dietrologie contorte. Assenza di fiducia reciproca nell’altro. Tutti diventano nemici e alla peggio non ti vogliono nelle loro vite. Non ti amano più.
Quanto è costato vivere con tutto questo. E ancora più costoso (in euro ed energie) è stato riconoscerlo ed accettarlo una volta a settimana dalla psicoterapeuta.  
Non sapevo se consolarmi all’idea che non ero l’unica matta in questo marasma di anime che alla fine si scopre essere, quasi (lasciamo il beneficio del dubbio), tutte sospettose.
Quanto sono complicati i rapporti, continuavo a ripetermi nella testa mentre attraversavo le calle madrilene.
E poi un pensiero. Un nome, un volto, due occhi azzurri e capelli biondi hanno preso forma.
Lei. La mia amica. Il mio miele di castagno.
Ci conosciamo da vent’anni ma anche con lei ho discusso quando al suo matrimonio mi ha convocata come invitata e non come testimone. Dispiaciuta era un termine che non poteva rendere. Gliel’ho fatto pesare. Le ho piantato una delle mie scenate. Poi, sfinite, lei mi ha detto:
Non ti voglio perdere.
E ho smesso di lottare. Ho deciso di abbandonarmi a quell’amore fraterno che nonostante tutto, nonostante me, non avrebbe rinunciato a me. Così sono andata al suo matrimonio da invitata, amica, sorella e l’ho amata ancora di più per questo.
Il mio miele di castagno. Dolce e con una nota pungente. Le ho dato io questo nome proprio in quella mattinata di novembre quando poi l’ho chiamata e l’ho portata in giro con me per la Gran Via e al mercato di San Miguel. E da allora tutte le volte che siamo in viaggio ci chiamiamo.
Come oggi.
– Ti ho trovato un’edizione di Notre Dame de Paris. Che faccio la prendo? – mi ha chiesto distratta.
Sa che adoro Victor Hugo.
Sappiamo (quasi) tutto l’una dell’altra. Soprattutto le cose scomode, quelle che non si ha il coraggio di ammettere nemmeno a sé stesse. Ma d’altronde con lei ho condiviso il primo banco al liceo e le disavventure delle traduzioni di greco e latino, le prime cotte e tutta quella fase dell’adolescenza di cui fin dall’inizio ti dicono che non esistono istruzioni per l’uso, che non s’insegna nulla, si vive e basta. Come potrei non condividere tutto il resto?
Insieme, durante gli anni della scuola, ignare e incoscienti, ci siamo convinte che avremmo dimostrato a tutti il nostro valore, il nostro coraggio gridando al mondo: ehi noi siamo due amazzoni della vita! Ci siamo convinte che niente ci avrebbe spaventato, che niente avrebbe ostacolato la nostra strada, che avremmo sfoggiato una sana e potente competizione e avremmo vinto (costi quel che costi) un premio Nobel per la scienza. Ce lo siamo promesse.
Ci siamo promesse che avremmo scoperto un qualche nuovo rimedio per sconfiggere il cancro, una nuova proteina che disinnescasse la replicazione del virus HIV o che avremmo debellato dalla Terra qualche altra malattia infettiva.
Siamo cresciute. Siamo diventate adulte: due donne.
Viviamo in città diverse. Abbiamo intrapreso strade e scelte diverse ma siamo qui. Ancora a tenerci la mano, a crederci. A supportarci e a sopportarci. Siamo unite (in barba a tutte le distanze). Laureate entrambe: un chimico e un biologo. Sposata una, single recidiva l’altra. Nessun figlio (almeno per ora), solo un gatto.
E nemmeno l’ombra di un lavoro a tempo indeterminato in quello che dovrebbe essere il nostro settore di competenza. Come pure da lontano non si scorge all’orizzonte alcun premio Nobel.
Che cosa è successo?
Non saprei dirlo con esattezza. Semplicemente è successa la vita e tante cose non si spiegano se non con questa (anche se all’apparenza banale) frase.
Al momento sono sperduta a Bonifacio, una città sulla punta meridionale della Corsica: con quei pochi risparmi di un lavoro precario, ho deciso di lasciar tutto, rintanarmi sul mare e provare a fare quello che ho sempre desiderato fare: scrivere. A tempo perso insegno l’italiano a due francesi.
Lei invece, è in viaggio a Parigi: ha tirato su con poco e con niente una rivista d’arte e ora va in giro per il mondo ad organizzare mostre di artisti emergenti, qualcosa che ricorda l’Esposizione Universale del secolo scorso.
– Guarda che ti aspetto! Non puoi mancare all’inaugurazione! Ci tengo troppo.
E mi tempesta di domande e mi chiede come va la scrittura. È la mia Peggy Guggenheim personale. L’adoro, il mio miele di castagno, anche per questo. Poi entusiasta mi dice:
– Ma lo sai che stasera canterò al Cafè Laurent, Calling you? Non sarà il Blue Note di Manhattan ma cavoli, sta succedendo.
E quelle o le vedo prolungarsi infinite. Ridiamo (che bello saperlo fare ancora). Gioisco insieme a lei (e sempre lo farò) anche se non sa ancora cosa indossare stasera. Lo so che vorrebbe mettere un vestito sbrilluccicante alla Jessica Rabbit. Dovrebbe osare. Ha tutte le carte per farlo.
– Sì, amica mia sta succedendo! – le dico più entusiasta di lei.
A pensarci bene quel premio Nobel non è stato poi tanto mancato.
Se è vero che è uno dei più importanti riconoscimenti mondiali e che viene assegnato ogni anno a persone che si sono distinte nei campi della conoscenza umana e hanno portato considerevoli benefici all’umanità, bè eccoci qua. Ovviamente si deve considerare umanità le nostre sole due persone. E allora udite udite: habemus gloriosem victores. Noi.
(Noi e milioni di altre persone. Vero, ma lasciateci sognare).
Apro gli occhi.
Sono zuppa di sudore. La sabbia blu della clessidra è agli sgoccioli: i venti minuti tra poco finiranno ma il tempo continuerà ad andare insieme ai miei pensieri, ai miei ricordi e a questo ignoto presente.