
Una fitta serie di pensieri stretificati
Il mercoledì è il mio giorno. Quello che dedico a me.
Inizia un po’ dopo le 15, quando esco da lavoro e rientro a casa: poggio tutto ciò che non mi serve, cambio borsa e ci infilo tutto ciò che mi è indispensabile. Il libro che sto leggendo, la mia agenda-quaderno-diario, il mio notebook e due quadratini di cioccolato fondente. Ah! E la penna, rigorosamente blu.
Quando chiudo la porta alle mie spalle parte il mio rituale. 15.30: seduta dalla psicanalista. 16.15: biblioteca fino a mezzanotte.
In biblioteca scelgo accuratamente una delle poltrone in pelle: deve essere distaccata dalla sala, lontana dagli studenti e deve avere una presa elettrica nelle vicinanze per caricare il cellulare. Una volta trovata, mi privo di cappotto, sciarpa e un guanto: chissà in quale via o in quale attraversamento pedonale ho perso il suo speculare. È il secondo paio in dieci giorni. Appoggio la borsa di Mary Poppins per terra. Mi accoccolo. Quindi, finalmente, prendo il libro. Guardo la copertina per alcuni secondi:
Grande Era Onirica. Marta Zura-Puntaroni.
Ho cominciato a leggerlo lunedì sera e ad oggi mi mancano poco più di una cinquantina di pagine. Apro al punto dove c’è il segnalibro e leggo.
[…]
Non so quanto tempo mi ci è voluto per finire, so che sono arrivata alle ultime battute e le sto rileggendo per la terza volta: credo di essere in pieno hangover letterario. O forse no. Qualcuno si avvicina e mi sussurra qualcosa tipo “bagno”. Cerco di riprendermi e dargli tutte le indicazioni sperando che non si perda. Poi mi decido a chiudere il libro e torno a guardare la copertina.
Marta. Ere Oniriche. Uomini. Dipendenze. Marta.
Ad un tratto mi sembra di vederla con i suoi capelli tinti di verde e, tra le mani un po’ tremolanti, una sigaretta elettronica. Altra Grande Era Onirica? Non posso fare a meno di chiedermi ora.
Clic della penna. Sfoglio il mio taccuino alla ricerca di una pagina intonsa.
Devo mettere ordine tra i pensieri. Alla fine si tratta sempre e solo di questo: rimettere al loro posto i miei pensieri. Come se davvero poi i pensieri potessero avere un posto, uno scaffale, un proprio ripiano dove essere sistemati. Catalogati come i libri di questa biblioteca, e del resto di tutte, con un codice univoco ed identificativo. Forse no, ma arriva un momento, quello in cui scrivo, in cui questi miei pensieri prendono forma, e in qualche modo smettono di vorticare e vanno al loro posto.
Così comincio a scrivere:
Ho conosciuto Marta in una sera di fine ottobre alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia mentre tra chiacchiere, un Aperol e una focaccina rubata al buffet attendevamo che la serata volgesse al termine e un altro giorno si levasse su quell’evento editoriale: L’anno che verrà – I libri che leggeremo. Non avevo la benché minima idea di chi fosse, né del suo esordio letterario, né della sua attività bloggeristica. Per me lei era il nulla cosmico eppure era lì per l’uscita del suo secondo romanzo.
È stata una Torta di latte a forma di B a farci incontrare.
Marta parlava un po’ di tutto: di libri, scrittori, della sorella e di Siena (nata marchigiana ha intrapreso i suoi studi letterari nella città toscana del palio). Parlava e continuava a ripetere che le cose nella sua vita le capitavano senza che se le andasse a cercare: così è stato per esempio con Mimma, la sua gatta siamese trovata mentre aspettava ad una cassa dell’Ikea ed è stato così per la sua prima pubblicazione.
Anche se a volte (per i miei gusti) dava delle risposte un po’ troppo dirette al limite dell’astiosità, mi piaceva. Mi dava l’impressione che quella disparità che generalmente respiro quando mi trovo a condividere un certo luogo per un certo momento con altre persone che, per trascorsi ed esperienze sono diverse da me, fosse del tutto annullata. L’idea di parità che rimandava aveva a che fare con una mal celata umana fragilità.
Così, spinta dalla curiosità di capire meglio Marta, ho comprato “Grande Era Onirica” e le ho chiesto di concedermi una pseudo-intervista il giorno dopo. – Certo che sì.
Mi fermo. Alzo la penna dal foglio.
E sento di nuovo quella sensazione percepita mentre leggevo il libro: quanto della vera Marta c’è nella Marta-protagonista?
Poi riprendo:
Così quella domenica mattina ho scoperto che anche lei ha intrapreso un percorso di psicoterapia. In un modo un po’ contorto mi sono sentita normale: sentivo di non dover guarire da qualcosa di sbagliato, sentivo che in fin dei conti non c’era proprio niente che in me non andava. Non solo in quel momento era vivida la percezione della parità, ma sembrava colmata anche una sorta di solitudine: non ero l’unica, la sola ad ammettere di avere difficoltà con tutto questo. Con me, con gli altri.
E non era tutto: Marta ne parlava con assoluta libertà. Senza tabù mi ha accennato a tutta una sfilza di antidepressivi che compaiono nel romanzo. Allora curiosa le ho chiesto:

Senza rispondere ha preso il suo libro, la mia copia, e ha sfogliato le prime pagine:
– Lo spiego al secondo capitolo, – e schiarendosi la voce ha letto:
Ci sono quelle che io chiamo le mie Grandi Ere Oniriche.
Le Grandi Ere Oniriche sono strettamente legate alle mie dipendenze, e all’interno delle Grandi Ere Oniriche posso riconoscere i fili conduttori delle sostanze, qualcosa di chimico che lega assieme gli spasmi notturni della corteccia prefrontale e sembra quasi dar loro un senso.
– A seconda delle dipendenze del momento, – ha continuato, – la notte Marta ha degli incubi devastanti e in qualche modo sia questi sogni surreali che queste dipendenze si stratificano come ere geologiche, come se sedimentassero e andassero a formare lei. Quello che lei è in quel momento. Se ci fai caso il titolo è scritto in modo che le prime lettere di ogni parola compongano proprio la parola geo: terra.
Ho guardato il titolo e ho annuito. Una serie di strati, questo siamo – ho pensato. Stregata da questo pensiero, prima di lasciarla le ho chiesto una cosa un po’ insolita: volevo che rispondesse a due domande scrivendole sulla prima pagina del suo libro. Una sorta di stramba dedica che faceva all’incirca così:

Vedo il passaggio dall’adolescenza all’età adulta la paura della malattia la paura della morte la consapevolezza che nulla ha senso – ma non importa perché fuori c’è tanto verde.
MZP
Una finestra di meringhe.

Poso per un momento la penna e guardo quella pagina: sembra quasi una poesia. Da un taschino della borsa tiro fuori un involto in alluminio. Addento un pezzetto di cioccolato e riprendo a scrivere:
É passato qualche mese da quell’ incontro e solo tre giorni fa ho deciso di mettere il naso tra le parole di Grande Era Onirica: la storia di una ragazza che si innamora di un professore dell’università anni e anni più grande di lei, divorziato e con una moglie che non si sa bene se ama ancora o odia (o entrambe le cose). Un rapporto in cui lei cerca di imporsi, di dargli una qualche parvenza di forma ma che ne ha solo una: il sesso. È una storia in cui compare un unico nome proprio di persona, quello di Marta, e tanti appellativi: il Primo, il suo primo amore, il Vecchio Argentino, il suo primo psicologo, il Poeta, un amico-compagno di università co-protagonista della Grande Era Onirica del Martini. Poi c’è l’Altro, lo stronzo divorziato con figlia a carico e lo Junghiano, lo psichiatra che le prescrive cocktails al sapore di serotonina. Persino i genitori, per Marta, sono mia madre e mio padre. Non salva nemmeno la sua psicologa che chiama Hippy. Solo la sua amica barista ha un qualcosa di vagamente simile ad un nome: la Ste. Come se loro (questi appellativi, questa gente apparentemente senza nome) fossero presenza sfocata. Uno sfondo scenografico senza alcuna importanza. Uno sfondo senza il quale in realtà Marta poco (o molto) potrebbe.
La storia di Marta è una storia angosciante, a tratti violenta. Una storia che tra passato e presente sembra trascinarti in un dolore corroborante. Con un padre un po’ rigido e per niente affettuoso: uno di quelli che non ti fa mancare nulla dal punto di vista economico ma che ti priva volentieri di un abbraccio perché Oh devi capire da subito figlia mia quanto la vita sia crudele. Ma Marta lo sa quanto subdola può essere questa vita altrimenti non si rifugerebbe tra fumo, alcol e tutta quella psicologia. Non troverebbe conforto in quelle complicate formule chimiche che fanno star meglio quel suo malessere invisibile che pure ha un’origine anatomica ben precisa. Come precise sono le descrizioni che ne fa di quei perfetti meccanismi fisiologici che ci regolano, che ci fanno stare al mondo.
Sì: strana e subdola questa vita. A tal punto da convincersi che sia meglio farla finita e dare un po’ di tregua a quelle povere Tre Parche. Questa è la storia di Marta: tentativi e cadute. Principiare. Rialzarsi e ancora tentare.
Mi fermo, di nuovo. Lascio che la mano si riposi un po’. Alzo lo sguardo e mi do un’occhiata in giro: c’è chi legge e chi si alza per andare a fumare un cicchino. Anche Marta-protagonista passava molto tempo in una biblioteca, quella della facoltà di lettere. Tante volte sarei voluta entrare lì dentro: sarei corsa a picchiarla perché stupidamente puerile e ribelle. Tante altre volte invece avrei scaraventato la porta sprangata del bagno, dove amava rinchiudersi, per abbracciarla perché volutamente indifesa e indifendibile. Sospiro. Cerco di capitolare, di dare una fine dignitosa a questa storia, a questi miei pensieri ora riordinati. Nel frattempo mangio l’altro pezzo di cioccolato. Uno sguardo all’orologio e poi mi decido a scrivere una frase pronunciata da Marta in quella lontana domenica autunnale e che mi porto dietro come un monito:
le storie sono sempre le stesse. La differenza sta nel raccontarle, nel saperle scrivere.
Non so che tipo di storia è quella che ho scritto in queste pagine per raccontare la tua storia, so che le tue parole mi accompagneranno fino a casa stasera e, per molto tempo ancora, mi terranno compagnia. So che attenderò un altro mercoledì per rimettere a posto altri pensieri e poi ci sarà il mercoledì successivo con i suoi pensieri e quello dopo ancora con altrettanti diversi pensieri.
Perché questo siamo: una fitta serie di pensieri stratificati.

