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Non è Successo Niente ovvero QUANDO LE COSE BELLE SUCCEDONO

Il taxi mi lascia in via Costantinopoli 58.
Anche se è il 29 dicembre (e sono a rischio assideramento), resto in attesa sul marciapiede opposto a guardare quella porta. Tranne qualche coraggioso fumatore e me, per la via non c’è anima viva.
Dopo qualche minuto (il tempo necessario perché le mani si intorpidiscano dal freddo) mi decido ad entrare accompagnata dal pensiero felice che anche qui succedono cose belle.
Così varco la soglia dell’Officina Maremosso.

Un progetto nato nel 2017 nella zona di Porta Napoli, Taranto (tra il porto mercantile e la stazione ferroviaria). Si tratta di una vera e propria officina sociale allestita all’interno di un vecchio capannone ottocentesco che all’epoca fungeva da stalla per muli e cavalli dei “traìni”. Oggi si restaurano antiche barche a vela in legno. Quest’officina ha stretto importanti accordi di collaborazione con il Ministero della Giustizia e la Marina Militare ponendosi come mediatore per la concretizzazione di attività per i minori a rischio devianza. In questo modo gli adolescenti che abitano il territorio possono apprendere tecniche lavorative tradizionali legate al mondo della navigazione a vela.

Questa la descrizione della location che ospita l’evento Aperitivo d’Autore.
E infatti vengo accolta da un’enorme barca in legno rialzata che occupa quasi tutto il locale e, in un angolino, un’altra imbarcazione più piccola, appoggiata lungo il suo fianco che fa da sfondo scenografico a due sgabelli (sempre in legno) sui quali sono appoggiati due microfoni.
Vincenzo Parabita, l’organizzatore, si sbraccia da lontano mentre io sono ancora sull’uscio. Mi raggiunge e mi travolge con la sua ospitalità (e con il suo marcato accento tarantino).
– Mentre aspettiamo Nicolò, posso farti qualche domanda sull’evento? -chiedo timidamente.
Non mi dice neanche sì che comincia a parlare.
Scopro (e di nuovo si affaccia quel pensiero: anche qui succedono cose belle) che Aperitivo d’autore è un format itinerante dell’Associazione culturale Volta la Carta di cui Vincenzo è presidente. L’idea è semplice e geniale: unisce cibo, vino (a chilometro zero) e letteratura (tutti i chilometri italiani e non) e dal 2015, tra masserie, terrazze, concept store, ipogei, musei del tarantino hanno partecipato autori come Paolo Rumiz, Marco D’Amore, Catena Fiorello, Luca Bianchini, Simonetta Agnello Hornby, Giuseppe Catozzella, Stefano Benni, Chiara Gamberale, Francesca Cavallo, Cristiano Godano e Fabio Geda.  

– Per citarne alcuni, – mi dice soddisfatto Vincenzo, – stasera, invece, è la volta di Nicolò Targhetta con il suo Non è successo niente.
Annuisco con la testa.
In realtà io non ho mai sentito parlare di Nicolò e del suo libro prima di qualche sera fa quando la mia socia mi ha inviato la locandina dell’evento. Spinta dalla curiosità, ho chiamato il numero di cellulare (in basso a destra sul post) e dopo le dovute presentazioni, ho chiesto a Vincenzo di poter intervistare l’autore (a me) sconosciuto. Per non rischiare di fare la figura dell’ignorante, ho fatto un po’ di compiti a casa scoprendo (lo ammetto meravigliandomi e non poco) che Nicolò è un (quasi) 34-enne padovano, laureato in Scienze della Comunicazione. Scrive su Facebook (conta più di 102000 follower) storie lunghissime in forma dialogica e, cosa assurda (almeno per me), non ha profili Instagram.
Mentre intrattengo pubbliche relazioni con Simona, un’altra organizzatrice dell’evento, Nicolò finalmente arriva. Ci presentano.

Vorrei subito chiedergli: ma quanto sei alto? Non hai mai pensato ad una carriera nel basket? Ma lo sai, vero, che il pizzetto non va più di moda dal 1861? Hai mai pensato di farti crescere meglio quell’abbozzo di barba o non fartela crescere proprio? Nicolò con una sola c? Davvero?!

Il mio buon senso mi salva da ripetuti vaffa e dall’odio incondizionato di una persona che nemmeno conosco. Con un sorriso cordiale, propongo di cercare un posto lontano dal chiacchiericcio. Lui si siede, io resto in piedi: almeno non devo piegare il collo verso l’alto per guardarlo.
Dalle prime domande scopro che (oltre ad avere la erre moscia ed essere simpaticamente sarcastico) post laurea, si è cimentato nei lavori più disparati: web master, social media manager, ufficio stampa che definisce uno dei lavori più prossimi all’inferno sulla terra. Mi verrebbe da chiedere quale girone, ma ancora una volta (e per fortuna) preferisco tacere. Finalmente mi parla del blog: nato in seguito ad una sorta di sconfitta editoriale:

Avevo scritto parecchie cose, – le chiama proprio così: cose, non storie, non romanzi, non libri, ma cose, – che però non si concretizzavano realmente in qualcosa. Unica scelta che potevo prendere era quella di abbandonare questa storia della scrittura. E poi un giorno mi sono svegliato e ho detto: NO-NO, – con tanto di indice alzato, – comportati come un’idiota!

E così si è convinto a pubblicare per un anno tutti i giorni, ogni giorno, un racconto lungo e privo di qualsivoglia immagine (contro ogni standard facebook-iano). Non è che la faccenda abbia ingranato subito: dopo 365 giorni di sbatti per postare alla stessa ora un qualcosa di accattivante e leggibile, a seguirlo erano in 800 e solo a secondo anno inoltrato, ha cominciato a vedere (e apprezzare) più condivisioni. Da lì la discesa: la pubblicazione delle storie sotto forma di volume. Ad oggi però, sebbene gli manchi quella sorta di quotidianità molto vicina alla tossicodipendenza, ha dovuto ridurre il numero di pubblicazioni a 3 alla settimana perché momentaneamente è alle prese con un’altra cosa per il suo editore (Becco Giallo).

non posso fare a meno di domandare.


– “Non è successo niente” era la cosa che io dicevo ai miei genitori quando tornavo a casa da scuola. La scuola è il luogo dove succedono le cose peggiori che ti segnano a vita e sebbene fossero successe delle cose terribili, alla domanda “Come è andata?”, rispondevo sempre: “Non è successo niente.” Glissavo per non farli preoccupare ma in realtà era successo tutto. E la stessa cosa mi è capitata dopo l’università: io mandavo CV, facevo colloqui e non succedeva niente. Ed era un modo per dire loro di stare tranquilli e non preoccuparsi.

chiedo, ora incuriosita.

No! – mi dice ridendo. – Ero nel panico. Ero terrorizzato. Era in realtà un grido di aiuto, un: leggete tra le righe! Le cose qui non vanno per niente bene! Che poi è un po’ il grido d’aiuto di tanti miei coetanei e di questa nostra generazione.

Di nuovo la tentazione di domande scomode che crosso con un:

È stato molto bello perché mentre al nord abbiamo fatto delle presentazioni molto formali in Feltrinelli, al sud mi chiamavano dei librai indipendenti che organizzavano l’evento, come in questo caso. E queste, di solito, sono le cose più umane, più calorose. Le prime presentazioni in assoluto sono state a Bari e a Lecce.

E mi racconta un aneddoto (scopro che Nicolò praticamente vive di aneddoti) su una signora che a presentazione finita gli chiede che mestiere fa per vivere.
– Lo scrittore, – gli suggerisco. Ma no! Che sciocca!
Sono completamente matta (e lui emotivamente scaramantico) ad affermare una cosa del genere: non sai, forse, tu, o donna, che quel lavoro con la s proprio non si deve pronunciare? Vabbè questa volta glisso io e gli chiedo:

Io credo che lo stile di uno scrittore, – (qui però se lo concede eh?!, ma di nuovo, brava me, taccio), – si basa su quello che gli piace leggere: io non ho mai amato le lunghe descrizioni ma sono sempre stato affascinato dai dialoghi perché mi è sempre sembrato di capirli meglio. Inoltre il dialogo permette di accedere facilmente e di entrare subito nelle dinamiche tanto che nei miei racconti non compaiono mai i vari “disse” e “rispose” e questo annulla molto la presenza dell’autore nel rapporto con il lettore. Quindi chi legge si ritrova a vivere direttamente la storia e i personaggi.

Gli confido che in realtà per me i dialoghi sono una sorta di salvataggio in calcio d’angolo: quando sono bloccata e non so come continuare, eccolo lì, ben piazzato, un dialogo diretto. Dopo essermi vergognata di questa condivisione gli chiedo ancora:

Difficile, – e dalla sua bocca escono infinite e. – Non saprei davvero. Ma ti so dire uno scrittore che quando l’ho letto ho pensato: qui c’è qualcosa in più nella scrittura. È Jerome David Salinger. Che potrebbe sembrare una risposta banale ma non lo è perché non mi ha colpito tanto con Il Giovane Holden ma con un racconto che si chiama Una grande stagione per i pesci banana che è pieno di inquietudine sebbene lui non abbia mai utilizzato una sola parola inquietante ed io non facevo che domandarmi: ma come fa a trasmettermi questa sensazione se non usa nemmeno una delle parole che la evocano? Ed è così che ho capito che la scrittura poteva essere qualcosa che riesce a passare sotto pelle.

Sono rapita dalla sua risposta: conosco Salinger e devo assolutamente leggere quel racconto con i pesci banana (cosa saranno mai?!). Lo guardo senza pronunciare parola e capisco che devo passare alla domanda successiva. Quindi biascico un:

Ce l’ho! Sarei la Sacher. Un dolce strepitoso come concezione ma rovinato letteralmente da questa cosa che ci mettono in mezzo: la marmellata. Ma perché? Ecco! Io mi sento così: idee geniali e progetti che sembrano perfetti, poi ci metto qualcosa nel mezzo e rovino tutto!

Gli comunico che ho un’ultima domanda da fargli e poi saremo liberi di buttarci su quel che resta del buffet visto che hanno aperto le danze proprio quando abbiamo cominciato l’intervista.

Questi 365 giorni sono un gigantesco grido di aiuto in cui ci sono tutte le mie ansie, i miei problemi, le mie insicurezze. Ho raccontato delle cose orribili su di me che non riuscivo a confessare nemmeno a me stesso e poi le ho scritte e le ho postate su facebook. Questi miei racconti fanno molto ridere. La conclusione potrebbe essere: fai una vita molto ridicola. Ma non è questo! – ride anche lui. – La conclusione è che si possono comunicare grandi paure e grandi ansie attraverso qualcosa che allo stesso tempo fa molto ridere. Io vedo questo dalla mia finestra: una persona che ha molta paura ma non vuole dare alla vita la soddisfazione di soccombere alla serietà. Ed è per questo che vado da uno psicologo tre volte a settimana.

Ridiamo. Lo ringrazio e ci separiamo. Riesco ad acciuffare qualcosa da mangiare e un bicchiere di birra. Poi la presentazione ha inizio: ancora domande, aneddoti, letture e valanghe di risate.

Sto bene.

D’un tratto scopro che questa specie di Michael Jordan veneto (o Zlatan Ibrahimovic per gli appassionati del calcio) un po’ disagiato mi ha stregata: sembra che sia riuscito nel tentativo di far succedere delle cose belle. Sembra voglia dire attraverso il suo libro: i disadattati esistono ed io ne sono un esempio, ma ehi!, anche noi ce la possiamo fare. Anche noi possiamo far succedere cose belle. Qui e altrove. Nonostante tutto, nonostante non sia ancora successo niente (o forse perché è proprio già successo tutto).
Compro il suo libro e afferro un pezzo di pandoro con crema di cioccolato fondente.
Esco. Non mi importa più del freddo: ho deciso di fare due passi e respirare un po’ di iodio. Così mi ritrovo sul ponte di pietra ad ammirare il tesoro più prezioso di Taranto: il mare.

Da qualunque ponte lo guardi quel mare (e di ponti ce ne sono tre in questa città), c’è un’inconfondibile caratteristica: distese a perdita d’occhio di file di pali immersi nell’acqua, pronti ad accogliere quei gustosi gusci neri chiamate cozze.
E poi la vedi come un brutto skyline, quella fabbrica che sputa acciaio e morte e allora non posso fare a meno di chiedermi: se è possibile che uno scrittore non si perda d’animo e continui a inseguire il suo sogno, se è possibile che un progetto che non sa dove sta andando, ad un certo punto trova la sua rotta, non è anche possibile che una città come questa in qualche modo guarisca?
Non è così facile, lo so.
Ma so che le cose belle succedono e si fanno strada.
Come stasera.
E poi d’un tratto quest’immagine: il giovane Falanto di ritorno a Sparta dopo la lunga traversata che lo ha condotto fin qui a fondare quella colonia che sarebbe poi diventata la capitale della Magna Grecia.
Stanco, stanchissimo, viene accolto dai suoi genitori che gli chiedono:
“Allora come è andata?”
Rido: mi sa che un po’ ce lo vedo a rispondere: “Mah! Non è successo niente.”